martedì 30 dicembre 2014

L'importanza del disordinare

Florence Harrison, Mariana
Mattinata casalinga dedicata a mettere in ordine, cioè buttare via qualcosa, senza dispiacersene e senza lasciarsi andare al pigro “potrebbe sempre servire”. Intanto si può ascoltare della musica e fare posto a nuovi fiori,  profumi e giochi; e anche guardare il sole e affacciarsi al balcone, sul viavai colorato dei trolley e delle sciarpe di chi va e di chi torna.


Da ragazza non capivo certe catene di frustrazione che le persone si infliggono. Ora, invece, a volte provo rabbia, altre tenerezza e persino un po’ di pena. Molti cercano soluzioni facili per le loro paure, pillole o percorsi velocizzati, pur di non guardare dentro di sé. 


Mettere in ordine significa, in realtà, disordinare. Significa rivedere ciò che si dava per sicuro, compresi certi sentimenti assoluti, certi stupori. Mettere in ordine presuppone varcare porte, affacciarsi senza paura anche nell’abisso del non senso e del banale. Significa, a volte, leggere in una notazione meteorologica quel che davvero rappresenta e cioè la mera esposizione di un dato di fatto e non una metafora o una poesia. Ci si sente un po’ più soli, all’inizio, riordinando; cioè disordinando per sistemare in un altro modo cose, affetti e persone. Poi si prende confidenza con il disordine e si volta la testa dove non avevamo guardato abbastanza. Niente fanfare o fuochi d’artificio: basta solo avere il cuore libero di disordinare per poterlo aprire.



domenica 21 dicembre 2014

Una vibrata protesta diretta ai cinema

Tricky, la piccola triceratops di "Alla ricerca della valle incantata". 
Esprimo ufficialmente la mia vibrata protesta per l’abitudine, che si estende  a macchia d’olio nei  cinema, di proiettare solo nel pomeriggio i film di animazione o cartoni animati che dir si voglia. Questa abitudine è una finestra particolare dalla quale, se ce ne fosse bisogno ancora, si può capire come ci stanno irreggimentando con il nostro tacito consenso. 

"The Illusionist". Metterò qualche immagine tratte dai film di animazione che ho più amato, ma è difficilissimo scegliere!
1) La trovo un’idea bruttissima dal punto di vista culturale: sottintende che ci sono generi minori di arte e cultura, concepiti per soggetti (i bambini) meno senzienti, e incrementa l’idea tecnicistica della specializzazione estrema secondo la quale, alla fine, si arriverà a due soli prevalenti generi di film: quelli per i critici esperti di cinema e quelli per i cretini, i cittadini (elettori) in cerca di evasione mentale.


Un film è un prodotto culturale che parla a tutti e su cui, perciò, tutti dovrebbero avere il diritto di parola: alcuni pochi, i critici, per il linguaggio specifico e per gli aspetti, di storia del cinema o tecnici, a esso correlati; alcuni altri perché magari il film attiene a un argomento del quale si occupano e sono esperti; qualunque spettatore, infine, se il film riguarda in qualche modo, com'è probabile, anche i suoi sogni, desideri e paure.



2) La trovo un’idea bruttissima dal punto di vista degli adulti: perché ce ne sono, come me, per esempio, che amano i film di animazione; e poi perché noi adulti siamo ex bambini e il nostro Io bambino, se anche non si rivela nel qui e ora del nostro aspetto fisico o del nostro modo di parlare, è una parte di noi, abita la nostra dimensione interna e non dovremmo mai essere sospinti a tacitarlo.



3) La trovo un’idea bruttissima anche dal punto di vista dei bambini. Perché pensiamo che possono uscire solo di pomeriggio? Le regole che non contemplano eccezioni, la programmazione rigida di turni, orari, abitudini, ha qualcosa di insano; ma non si tratta solo di questo. Certo, generalmente, sì, la notte i bambini li mettiamo a letto.


Ma volete mettere, per un bambino, il fascino dell’eccezionale dopo cena in cui si va al cinema, con il buio, invece che a nanna sospettando che gli adulti si divertano chissà come o dove? Poveri bambini! Anche in questo modo togliamo loro un altro pezzetto di magia!


Uno dei film che mi sono piaciuti di più tra quelli degli ultimi anni.
(E ne ho visti tanti!)


venerdì 12 dicembre 2014

Notturno


Pensavo, poco fa, per le vicissitudini e gli incontri della giornata, che molte persone vivono di rancori e rimuginano e fantasticano ritorsioni provandone un perverso piacere. Tigri rabbiose e affamate di vendetta si agitano dentro di loro e le governano.

John Macallan Swaan, Tigri che si abbeverano, (data che non trovo, ma a cavallo tra 800 e 900)
Quanto a me, io, invece, non amo coltivare il rancore. Se qualcuno mi ha fatto del male, passato un po’ di tempo mi ci rapporto come se ricominciassimo un discorso diverso e dicendomi che forse la sofferenza che ha causato è stata inconsapevole. Non sempre ci riesco subito. 
Può capitare che la persona in questione reiteri il suo comportamento; mi sorprendo solo un poco, allora, perché si tratta di qualcosa che avevo messo in conto, accettandone il rischio. Mi allontano, però, e prendo le distanze anche dai sentimenti, positivi o negativi, che la riguardano. 
No, non amo coltivare il rancore, vivere con la testa voltata verso il passato e il cuore prigioniero. So che come Orfeo, se mi voltassi indietro, ucciderei il mio sogno.

John Macallan Swann, Orpheus, 1896

E so anche che coltivare il rancore mi renderebbe brutta dentro e fuori, con quella smorfia delle labbra all’ingiù che tante volte ho osservato, soprattutto nel volto delle donne, quando ero bambina. Mi renderebbe brutta e doppiamente infelice. 

lunedì 8 dicembre 2014

Estragone, Vladimiro e le onde che si frangono sugli stessi scogli

Castello Pasquini a Castiglioncello, dicembre 2014
Ieri ho visto di nuovo Estragone e Vladimiro, rapita dalla particolare lettura alla quale ho avuto il piacere di assistere, nel buio della saletta raccolta di un luogo familiare e bello come Castello Pasquini. 

Passeggiata "Alberto Sordi", Castiglioncello, dicembre 2014

Non accade nulla. Non accade nulla per due volte. Eppure, Aspettando Godot, è forse una delle opere teatrali più note del 900. Ed è anche, credo, tra le più complesse da interpretare, sia per chi lo fa come critico sia per chi lo fa come attore. Io non sono né l’una né l’altra cosa, però amo il teatro e mi occupo da molti anni - in un’altra fase della mia vita a diretto contatto - di soggetti autistici e  psicotici, del mondo della disabilità nelle sue variegate espressioni e di quello della follia. Per questo sono rimasta piacevolmente stupita, ieri, nell’assistere a uno spettacolo che ancora spettacolo non era, quanto piuttosto, come dice il regista Maurizio Lupinelli, uno studio di spettacolo. Qui il link. 


Castiglioncello, dicembre 2014

Interrogato tante volte perché disvelasse l’identità di Godot, Samuel Beckett, si sa, finalmente rispose, non so se più piccato o seccato, che se l’avesse saputo l’avrebbe scritto nel copione. Si è cercato troppo di sovrainterpretare quest’opera, l’abbiamo caricata di un simbolismo esasperato e infine assimilata al teatro dell’assurdo, inteso come messa in scena del surreale, ma sarebbe bastato immergersi, anche solo per un giorno, nel mondo della follia dei manicomi, e di quest’opera sarebbe stato possibile percepire tutto il doloroso e lucido realismo. Nei manicomi i folli girano in cerchio, ricalcano i propri passi. In cerchio, come in un eterno presente di sospensione. E ripetono ecolalicamente le solite frasi attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Spesso si tratta di domande che riguardano il tornare a casa; con la stessa frequenza e intensità drammatica, però, le domande riguardano il quando arriva qualcuno.
Castiglioncello, dicembre 2014
Come l'acqua del mare che si frange sugli stessi scogli e li carezza, si allontana e ritorna, incessantemente, le domande dei folli
 restano sospese nell’aria perché, in fondo, che Godot sia qualcuno o nessuno non cambia niente. Qui si tratta dell’attesa dilatata e messa in scena nella danza delle stereotipie motorie psicotiche e del dondolarsi avanti e indietro, proprio del tipico autocullarsi all’infinito che i medici hanno chiamato “rocking”. Cullarsi, anestetizzarsi, consolarsi e aspettare che tutto passi; non diversamente, in fondo, da chi abita il territorio della quasi normalità, cioè noi, quando proviamo un forte dolore o una forte gioia. Ci lasciamo andare a uno stesso ritmo binario per la ninna nanna o per la disperazione.

Castello Pasquini, Castiglioncello, dicembre 2014
Ecco perché, e sembra paradossale, interpretare Beckett, sia pure rivisitato e per frammenti, da parte degli attori che ho visto ieri in scena, può sembrare quasi naturale, semplice, familiare. Anche se il lavoro di preparazione è stato invece sicuramente complesso, lungo e faticoso.



Castiglioncello, dicembre 2014
Il percorso laboratoriale di Maurizio Lupinelli e della Compagnia Nerval Teatro è iniziato nel 2006. Di questo percorso ho ancora impresso nella mente il bellissimo Marat, tratto liberamente da Marat-Sade di Peter Weiss, con tantissimi protagonisti, persone con  disabilità di diversa natura e di età differenti.

Castiglioncello, dicembre 2014
Era il 2007 e lo ricordo perché ne avevo scritto, allora, all’interno di un articolo più ampio sul disgregarsi della cultura e sull’enorme ingiustizia esercitata dal potere mediatico nel dare risalto o nel condannare al silenzio le opere teatrali, letterarie, musicali o cinematografiche contemporanee. 



Castiglioncello, dicembre 2014
Ne riporto la parte specifica:
“A febbraio, a Castiglioncello, va in scena Marat (dal Marat-Sade di Peter Weiss): la drammatizzazione dell’omicidio di Marat a opera dei ricoverati nel manicomio di Charenton guidati dal Marchese de Sade, folle tra i folli. Regista e drammaturgo è Maurizio Lupinelli, sul palco insieme a una cinquantina tra attori professionisti, operatori della riabilitazione e, soprattutto, soggetti disabili psichici o psicofisici, non pochi dei quali prigionieri, nell’uso delle parole, della difficoltà di articolazione o di alterazioni stereotipate dell’espressività locutoria.
Anche in questo caso mi guardo intorno, nel buio, quasi a spiare i volti degli altri spettatori. Non so come accada, ma percepisco che ci sentiamo vivi: attraverso le parole di chi si muove nello spazio scenico, anche se ci arrivano talvolta un po’ deformate; attraverso la prosodia che le accompagna, ora quasi cantilenante, ora, invece, quasi meccanica, aspra, scarna; attraverso le espressioni del volto che si trasmutano in smorfie e rapidamente si ricompongono nelle maschere consuete della normalità; attraverso le nude sillabe o le frasi ripetute; attraverso i gesti e gli occhi in quel loro rivolgersi verso di noi quasi cercando il riconoscimento di esistenza nello sguardo ricambiato. Osservo i miei simili, nella penombra che confonde i contorni dei corpi e delle cose: tutti quanti ci sentiamo percorsi da brividi di sensazioni forti o dal ricordo nostalgico di teneri struggimenti. Non c’è alcuna retorica in questa rappresentazione della diversità che ci fa sentire tutti differenti e nello stesso tempo uguali gli uni agli altri: carnali nell’intensità della rabbia e della gioia, nel trascorrere dall’uno all’altro delle emozioni, nell’ammutinamento della mimica o nella sua esasperazione. Ognuno di noi è spettatore e attore insieme, perché tutti veniamo catapultati nella dimensione formativa dello spaesamento; ci sentiamo prendere per mano e ci lasciamo stupire, disponibili, finalmente, ad attraversare l’ignoto. Nessuna fanfara mediatica, temo, racconterà mai tutto questo.”


Castiglioncello, dicembre 2014



mercoledì 3 dicembre 2014

Piccola storia di questo pomeriggio


Tamara de Lempicka, Ritratto di Susy Solidor, 1933

Fammi un po’ vedere. Ah, sì, è nella zona del cinema, quindi la troverò senz’altro. Un’occhiata frettolosa alla mappa di google senza accorgermi che la sto interpretando come fosse rovesciata, e via, in auto, in direzione della sconosciuta via Fausta Cecchini alla periferia di Pisa. Cerco una traversa a destra di via Bargagna, in direzione fuori città, mentre invece è una traversa a sinistra e così comincia una via crucis perché a destra non c’è niente e quel che c’è non ha nome.

Tamara de Lempicka, Autoritratto sulla Bugatti, 1925

Giro in lungo e largo, anche attraverso i miei ricordi. Toh, guarda, questo cortile l’ho affittato per poco per un compleanno di mio figlio piccolo! Ah, ecco, qui abitava la tale che frequentavo – ma non eravamo proprio amiche amiche – prima che nascesse mio figlio! Ah, e qui abitava l’amica carissima che ho perso di vista perché le nostre strade si sono divaricate parecchio e che proprio due giorni fa ho deciso di  cercare perché ho voglia di rivederla, dopo tanti anni. Entravo da quel vialetto e il portone della sua casa era quello in fondo.


Tamara de Lempicka, Rafaela su fondo verde, 1927

Si fa tardi e comincia  a prendermi un pochina d’ansia perché via Cecchini non si trova. Comincio a girare a caso, apro il finestrino e chiedo. Sono tutti desolati, allargano le braccia, ma non l’hanno mai sentita nominare. Ma ecco che finalmente la vedo: il cartello è seminascosto dalla prospettiva e ci parcheggio sotto. Scendo…No, questa è via Bargagna, con la posta in cui ho fatto la fila una volta accompagnando un’altra persona, la farmacia, il bar, un negozio di abiti…; sembra via Cecchini, ma è considerata via Bargagna...; ma allora dove sono gli ingressi di via Cecchini e come prosegue la via alla curva, a destra, a sinistra? Insomma riprendo l’auto e comincio un’altra via crucis a finestrino aperto. Scusi sa dov’è via…? Eccetera. No, mi spiace, non lo so. Molti dei molti che fermo non sono italiani come origine. La domanda, allora, si trasforma in “Scusi, in che via siamo?” Stessa risposta e stesse braccia allargate, nel segno universale che indica la desolazione rassegnata.
Tamara de Lempicka, Andromeda, anni '20
Ecco che vedo finalmente una scuola ed è l’ora dell’uscita pomeridiana: chiedo alle mamme, ai nonni, alle tante persone; ci abitano, ci portano i bambini, ne sapranno il nome! Non conoscono la via, non sanno il nome, si guardano l’un l’altro come se avessi chiesto loro di indicarmi dove si trova la pietra filosofale. Mi sembra impossibile. Alla fine parcheggio vicino al cartello con il nome della via Cecchini che non si capisce bene in che direzione si espanda; mi piazzo in un punto qualsiasi, a caso, e costeggio a piedi tutte le entrate, dato che il numero non c’è in nessuna, fino a trovare la targhetta del mio medico che il mercoledì visita in questo nuovo studio.


Tamara de Lempicka, Ritratto del dottor Boucard, 1929

Cosa sono venuta a fare? Ho una forma noiosa di tracheite che mi colpisce ogni tanto da quando, anni fa, ho smesso di fumare e per la quale di solito mi viene prescritto un ciclo di aerosol. E poi, una volta dentro, gli dico anche che su insistenza di alcune amiche, per certi malesseri strani degli ultimi tempi, vorrei fare come per le macchine: un tagliando e controllare i livelli. Ride e ride anche il suo apprendista stregone in odore di esame di stato e rido anch’io. Sono tanti anni che non faccio una visita medica. Mi chiedo se devo dire 33 e come devo fare i respiri da auscultazione.


Tamara de Lempicka, La convalescenza, 1932

Mi guida lui e dice che va tutto bene; mi riallaccio il vestito dopo che mi hanno auscultata in stereo (cioè in due, lui e il medico giovane, ciascuno con il suo stetoscopio), prendo la ricetta dell’aerosol, vado a piedi alla vicina farmacia e torno a casa. Non sono mai stata ipocondriaca e mi sono sempre fidata dei segnali del mio corpo cercando di prevenire quando sono di avvertimento. Perché anche il dolore o lo stress o le preoccupazioni o le delusioni possono fare stare male e allora bisogna agire su quel fronte prima ancora di prendere farmaci e questo è ciò che sto facendo per i malesseri strani che hanno preoccupato le mie amiche. Salgo le scale di casa a corsa e predispongo la mia macchinetta per l’aerosol sicura che i gatti si spaventeranno al rumore; poi mi rilasso, la mascherina sul volto, e penso.




Ho perso un pomeriggio intero, nella periferia di una piccola città, per trovare una via e un numero civico. Ho vagato tra abitanti che non conoscono il nome delle vie del quartiere in cui vivono e ho resuscitato anche un po’ del mio passato. Smarrita e sbigottita per questo, ma anche piena di stimoli atti a generare catene di pensieri, mi dico che è quasi come se avessi fatto un viaggio, una gita alla scoperta di un altro paese, mentre invece ero solo a poche centinaia di metri da casa e nella mia città. Però l’aerosol mi ha fatto proprio bene. Ora, perciò, mi preparo e fra poco  esco e vado al cinema. 


Tamara de Lempicka, Saint Moritz, 1929