lunedì 1 luglio 2019

Musei mortiferi e musei vitali

Questa e le successive sono state scattate presso il Muzeul Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Transilvania

Le foto sono di ieri e testimoniano la visita al Muzeul Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Romania, dove mi trovo per lavoro. Si tratta di un museo etnografico all'aria aperta, di circa 96 ettari, con camminamenti boschivi o lacustri tra una postazione e l'altra, con animali e piante, con un ristorante e qualche bar mimetizzati nella natura.


Come tutti i musei prevede un’interruzione della vita normale, ma nello stesso tempo, in questo caso, senza davvero interromperla.





Ci racconta il mondo rurale romeno attraverso i secoli e la grande inventiva nella lavorazione del legno, ma anche la trasformazione del modo di vivere la campagna attraverso una gran quantità di edifici e di macchinari, alcuni dei quali funzionanti.





Ci sono poche didascalie di parole, e a volte se ne sente forse la mancanza, ma è tutto affidato all'immersione psicofisica, e quest'ultimo è un pregio non indifferente.





Giro molto per musei, da tanti anni, anche perché come pedagogista mi interessa l’aspetto divulgativo e didattico e vi sono alcune tipologie che frequento di più. Per esempio, in viaggi turistici, cerco sempre di visitare i musei della storia della città in cui mi trovo o gli orti botanici.


Per interesse di studio ne frequento altri, come i musei di storia della medicina o anche quelli antropologici e in generale quelli che ci parlano di rapporti tra le persone, di trasformazioni della relazionalità, di modalità espressivo/comunicative diverse per epoca e cultura.





Ogni volta, però, finisco per inventarmi da sola un discorso narrativo anche interagendo, attraverso il luogo che visito, con i miei ricordi o con i miei desideri.



Con gli anni questo modo estremamente soggettivo e critico di frequentare i musei si è accentuato. In genere, per esempio, non mi piace la cornice, cioè il luogo in cui sono collocati.


Spesso è una sorta di hangar o di successione di hangar. Si tratta di stanzoni, insomma, lunghi e con scaffalature ostensive nelle quali sono sistemati gli oggetti di fronte al visitatore, esposti alla sua vista ma non al resto dei suoi sensi. Le didascalie sono per lo più pleonastiche, vale a dire inutili, poiché traducono in parole ciò che la vista acquisisce da sola.





Di solito non c'è un accompagnamento narrativo nel senso dell'affabulare, ma solo come profferta erudita di notizie tecniche e di dettagli ossessivi e interessanti, forse, solo per gli specialisti.

Mancano degli spazi. Per esempio un luogo che faccia da preludio e che immagino come uno spogliatoio psichico metaforico, che potrebbe essere nero o blu scuro, con una funzione anche in parte simile a quella del sipario a teatro: aiutare a uscire da una dimensione per entrare in un'altra.  In questo filtro metaforico, inteso come ponte tra il fuori e il dentro del museo, ci si potrebbe sedere o sdraiare e a luce più che soffusa ascoltare una musica adatta all'esperienza che stiamo per vivere.


Poi mi pare che manchino gli spazi di intervallo deputati a interrompere la dimensione hangar per permettere di visitare il museo in postazioni diverse ma legate, nello stesso tempo, da un filo narrativo; da storie importanti tramandate di generazione in generazione, come accadeva in altri tempi nelle veglie serali, al chiaro di luna o rischiarati dal lume di una candela.


Mi piacerebbe, infine, che ci fossero sentieri in cui si potesse passeggiare tra un punto di interesse e un altro per lasciare decantare le suggestioni e gli stimoli ricevuti e aprirsi a quelli successivi senza alcun effetto di saturazione. 





Il museo che sogno non dovrebbe essere solo il simulacro distante delle cose perdute, dunque portatore, alla fine, di un significato mortifero, ma piuttosto legarsi al qui e ora e alla vita.


Dovrebbe ricordare che una catena biopsichica lega tutti i viventi attraverso i millenni e dona senso al nostro affannarci a inventare nuove tecniche per fare pace con la natura o con il nostro inquieto mondo interno. Dovrebbe essere, infine, anche un modo per conoscere meglio noi stessi attraverso lo sguardo dell'altro.