sabato 31 gennaio 2015

Gli ex, gli amori, la trasformazione degli amori.

Il termine “ex” non mi piace. 
Aubrey Beardsley, Illustrazioni da Salomè, 1894

Ex marito, ex moglie, ex compagno o compagna, ex suoceri, ex compagna del compagno, ex compagno della compagna, ex cognati e così via. Lo so, è difficile trovare altre espressioni, però è bruttissimo questo prefisso “ex”. Sono convinta, infatti, che le relazioni significative, quelle in cui ci sono stati davvero dei sentimenti, dei sogni condivisi, delle confidenze importanti, non si perdano mai completamente e che se finiscono si possano trasformare in sentimenti di altra natura e non sprofondino nell’abisso del nulla. Mettere in pratica questo, però, può spaventarci e di certo ci complica la vita perché ci costringe a fare i conti con il passato, con noi stessi e anche con le relazioni del qui e ora. 

Aubrey Beardsley, Illustrazioni da Salomè, 1894

Guardandomi intorno noto, invece, che lo sport praticato dalla maggior parte degli ex (uomini o donne non fa differenza) è la denigrazione dei propri ex. Spesso si tratta di una vicendevole denigrazione.
Un ex può arrivare alla calunnia gratuita per rassicurare il nuovo partner rispetto a gelosie retrospettive oppure per fare bella figura, mostrandosi vittima senza alcuna responsabilità rispetto alla fine del rapporto e magari anche al suo inizio. 
Alla categoria degli ex rabbiosi e calunniatori si affianca, poi, quella degli ex che spariscono per non dover ripensare al perché profondo della fine di una relazione. Sono quelli che sostengono che capita così e che siamo come foglie al vento che non decidono o determinano niente, mosse solo dal destino; quelli del si ama e del non si ama più perché sì. 
Sono quelli che identificano innamoramento e amore, che si fermano al primo e pretendono che si prolunghi all’infinito e per questo, quindi, prima o poi si deludono.

Aubrey Beardsley
Si deludono se l’innamoramento non è abbastanza corrisposto, e in questo caso è comprensibile, ma molto di più se lo è, perché in questo secondo caso, con il conoscersi meglio e frequentarsi di più, emergono anche le difficoltà oltre alle gioie. 
L’innamoramento è idealizzazione totale del rapporto e dell’altro e per questo non può durare in eterno, ma per non esaurirsi deve trasformarsi in qualcosa di più profondo: l’amore, appunto. L'amore comporta l'accettazione dei limiti dell'altro e delle inevitabili zone d’ombra o delle crisi del legame che ci unisce a lui. 
L’innamoramento ci sorprende alle spalle senza che possiamo deciderlo, ma trasformarlo in amore è una scelta. Ci sono persone che non possono scegliere di amare perché non si sentono esse stesse degne di amore. Queste persone, però, si innamorano e quando accade tendono a diventare dipendenti da chi secondo loro non le ama abbastanza e rincorrono, implorano, soffrono ansie indicibili per una risposta in ritardo a un banale sms o se il cellulare dell’altro squilla a vuoto.


Aubrey Beardsley, Apollo insegue Dafne, 1896

Non è amore: è ricerca di conferma del proprio valore. A queste stesse persone può capitare di svalutare chi, invece, le ricambia e riesce a scorgere i loro lati più sensibili o profondi, i loro sogni, il loro volto migliore: insomma, proprio quello che magari aspirerebbero a essere, ma che non si riconoscono come proprio. Non ha valore chi ama chi non ha valore: è questa la drammatica regola che determina le loro scelte sentimentali. Ma ancora una volta non c’entra niente l’amore. 
Ex: un brutto prefisso che indica soltanto il nostro analfabetismo sentimentale. Bisognerebbe imparare, invece, a rendere creativa la solitudine e a usarla per comprendere e gestire da persone adulte i nostri affetti.

Aubrey Beardsley

venerdì 16 gennaio 2015

Il fascino della divisa

Questa e le immagini seguenti sono tratte dla film
"I 400 colpi" di 
François Truffaut.
Lei è una ragazza minuscola più dello zaino rosso che ha sulle spalle. Credo che sia una studentessa delle medie, a occhio e croce. Lui sta facendole un verbale di multa e ha il volto fiero e soddisfatto. Lei parla sottovoce, a testa bassa e mi sembra che stia per piangere quando le chiede il nome di un genitore e poi di parlare più forte e poi ancora più forte.



Premessa: penso che sia giusto pagare il biglietto dell'autobus e anche sanzionare chi non ce l'ha, però...Però questa ragazzina mi fa pena, soprattutto per il modo con cui la multa gli viene comminata, direi quasi con gusto, ma capisco che qui cado nell'illazione.
Mi faccio vicina e mi offro di darle io un biglietto, che può succedere di non averlo. Lei solleva la testa e mi guarda con un largo sorriso, ma lui, dopo un secondo di perplessità, dice che no, ormai non si può. Insisto, perché credo che un verbale si possa annullare e mi rivolgo agli altri passeggeri, chiedo pareri...Niente. Hanno facce cattive e rancorose già di prima mattina e soprattutto sono identificati con il "machemenevieneame" che qualifica sempre più persone in questo paese. 


Una volta discesa la rincorro per vedere di quanto è la multa. 80 euro. Mi accorgo che sono discesi anche i controllori (erano quattro su quell'autobus) e allora ci vado a parlare, anche se ormai serve a poco, ma per sapere se davvero non si può annullare un verbale. Ridacchiano, imbarazzati, e uno risponde il suo banale e prevedibile "ecchenneso" e mi guardano come se quella strana fossi io. 
Ripeto: penso che il biglietto vada pagato. Però, un po' di intelligenza, un po' di garbo umano, anche nello svolgere una mansione difficile, non farebbe che bene. Vedendo questa ragazzina forse il controllore poteva anche solo dire che gli dispiaceva, ma che non poteva fare altrimenti. Sorriderle invece di assumere l'espressione di un arcangelo Gabriele con la spada sguainata.



Sono tre i casi di suicidio adolescenziale nelle nostra provincia in poche settimane; tre casi sui quali, attoniti, gli adulti si interrogano. Ecco, partiamo anche da qui: dalla rigidità di alcuni di noi, incapaci di distinguere tra chi mette un atto un comportamento abitudinario e chi lo fa eccezionalmente; partiamo dallo stereotipo o dall'indifferenza che mostriamo ai ragazzi e forse capiremo perché, a volte, a quell'età si può perdere la fiducia nel mondo  fino a voler fuggire da dove non si può tornare mai più

lunedì 5 gennaio 2015

Una data non significa niente.


Ieri, da casa dei miei.
Una data non significa niente, mi dico. E poi è un numero persino brutto, dal punto di vista grafico. E’ il terzo anno che questa data non si festeggia più e che alzandomi, la mattina del cinque gennaio, cerco di credere davvero che una data non significa niente. Ecco che preparo il cibo per i due mici che già mi si strusciano alle gambe e che ogni mattina - e perciò anche questa, una data non significa niente – aprendo la porta della mia camera trovo già lì; in attesa, ma silenziosi.

Blu è quella a sinistra e Ulisse quello a destra.
Guardano perplessi una sconosciuta che scuote qualcosa dalla finestra
Rispettano il mio sonno e perciò anche stanotte non mi hanno svegliata; una data non significa niente.

Ulisse in primo piano e Blu nello sfondo, pensosa.
Poi mi preparo la colazione consueta, il primo caffè, una fetta di torta, lo yogurt - stamani con l’aggiunta di pinoli e di miele – e mentre la moka borbotta il suo buongiorno apro gli avvolgibili e lascio entrare il sole; metto su anche la lavatrice, perché una data non significa niente. Caricando il detersivo nella vaschetta l’odore mi riporta immediatamente indietro nel tempo. Non di molto, di poco più di tre anni. L’odore di una camera di ammalata per me è un misto tra quello dei disinfettanti e quello dell’acqua di rose con la quale mia sorella cercava di sovrastarlo, imbevendone un batuffolo di cotone e massaggiandole il volto delicatamente. 


Rapunzel, Emma Florence Harrison
Mi dico che non ci devo pensare e cerco di fare programmi allettanti per la giornata, ma ogni piccola cosa mi genera una catena di idee che mi riportano sempre al solito punto di partenza:  a una data, questa; e ogni associazione di pensieri, di sensazioni olfattive e di immagini è una specie di pugno allo stomaco. Mi viene in mente che ho la sua cuffietta di nascita, piccolissima, perché era gemella e dunque sottopeso. Ce l’ho perché mi ha seguito nei vari traslochi con la bambola alla quale da bambina l’avevo fatta indossare, ma ora che la bambola si è frantumata sotto il peso degli anni non so più dove l’ho messa e con l’ultimo recente trasloco non è l’unico oggetto che ancora non trovo. Mi preparo il secondo caffè, lo porto sul tavolo e accendo il computer accingendomi a scrivere che una data non significa niente; lo faccio, credo, per fare uscire la tristezza da dentro e condividerla con qualcuno, non posso sapere chi, che leggerà e che di sicuro ha provato qualche volta sentimenti simili. Lascio anche entrare nella mente l'immagine che ho cacciato indietro ieri e nei giorni precedenti: la sedia vuota nei giorni di festa. E penso che devo andare avanti e sorridere, anche se un po’ più sola, un po’ più sperduta.

Agrigento, tra gli aranci, tre o quattro anni fa.