mercoledì 22 ottobre 2014

Il mal di schiena


Gustav Klimt, Danae, 1907-1908
Prima di adesso mi è capitato una sola volta, tanterrimi anni fa, di avere il mal di schiena. Perciò non so cos’è, non so come si affronta, quanto dura, perché viene: insomma, non ne so niente di niente. Eppure, da ieri, mi è piombato all’improvviso addosso e sta lì a occupare un angolo della testa e a impedirmi di essere tutta nelle cose che faccio. Cioè, faccio le cose che faccio, ma sono anche più in là, come svaporata, come rapita da una fastidiosa sensazione di non libertà che mi rende, diciamolo pure, un po’ infelice. Da ieri mi spalmo del principio attivo (diclofenac) di una certa pomata, che almeno non ingrossa troppo le già pingui tasche delle industrie farmaceutiche  e da stamani  ho cominciato anche a darci sotto di compresse sublinguali, perché oggi volevo onorare un impegno preso. Ma non mi libero. Se me ne scordo un attimo e mi alzo, con la mia consueta rapidità, dalla sedia, ecco che come una mazzata il mal di schiena mi piomba più intenso sul dorso e mi piego, con una smorfia di dolore, camminando come se portassi una croce.

Gustav Kimt, Pesci d'oro (part.), 1901
Mi carezzo le vertebre, al centro della schiena, e mi sembrano enormi, sporgenti; serpenti di ferro che mi perforano i muscoli e la pelle. Che strano! E’ come se per tutti gli altri giorni e mesi e anni non fossi stata consapevole di avere queste vertebre enormi, questi anelli concatenati che danno saldezza al corpo, lo fanno stare eretto e mi rendono un essere non lombrichiforme.

Gustav Klimt, Sangue di pesce, 1882
Non sarà un caso che abbiamo bisogno di sdraiarci per riposare bene, dormire o lasciarci andare, su una distesa di sabbia, al rumore ritmico della risacca che ci culla come una ninna nanna. Forse questo mal di schiena quasi invalidante, al quale non sono abituata, mi vuole raccontare della fatica di questi ultimi mesi, del peso di cui mi sono fatta carico - e non avevo scelta - e di quello aggiuntivo, che potrei anche avere evitato. 

Gustav Klimt, Bisce d'acqua, 1903
Capire, ragionare, disarticolare le proprie ferite e delusioni per trovare una spiegazione razionale e adattarvisi, non portare rancore, non lasciarsi possedere dal risentimento, dalla rabbia, dal dispiacere relazionale... Tutti buoni e giustissimi propositi, tutti principi di vita assai etici, che mi sentirei ancora di raccomandare.

Gustav Klimt, Nudo di donna con corpo piegato
in avanti a sinistra
, 1900 circa
Ma la fatica e questo peso, queste fitte dove ora tengo la mano aperta per addolcirle con il suo calore, mi suggeriscono qualcosa. Anche il dolore rappresenta un segnale e forse, come una voce appena percettibile, come il rumore breve di un frullio d’ali, mi sta sussurrando di fermarmi, di socchiudere gli occhi, di ascoltare il silenzio. 

Pisa, ottobre 2014

martedì 21 ottobre 2014

Galileo, il liuto, la matematica e i giocattoli.


Il suonatore di liuto di Caravaggio
Mi sono commossa nel guardare quei ragazzi e quelle ragazze disposti in semicerchio, con i loro strumenti, nell’aula magna di un liceo della mia città. Perché vorrei che tutte le scuole fossero così, e non solo i licei musicali. In occasione dei 450 anni dalla nascita di Galileo in quella scuola c’era un convegno sul rapporto tra musica e scienza, che purtroppo non ho potuto seguire, se non per poco, per altri impegni di lavoro. Però l’ho detto, nel mio intervento previsto all’inizio. Ho detto che mi dispiaceva lasciarli sapendo che avrebbero parlato di cose che mi interessavano. Per esempio del rapporto tra un padre, Vincenzo Galilei, e un figlio, Galileo Galilei, così diversi e così simili nello stesso tempo.

Il film di Liliana Cavani, del 1968, fu prodotto dalla Rai,
ma mai trasmesso in televisione.
Del resto è dal padre che quel figlio aveva imparato a non ammantarsi di certezze teoriche e di abitudini speculative, a sperimentare, mettere alla prova, verificare ogni teoria senza preoccuparsi dell'autorevolezza di chi l'aveva formulata.


Ecco perché la rivoluzione musicale resa possibile dal padre mi piace pensarla come la colonna sonora di un improbabile film, quello che immagino nella mia testa sulla vita del figlio e sulla sua personale rivoluzione nel campo delle scienze. In questo film io mi immagino il giovane Galileo con i suoi capelli rossi e scarruffati mentre esce, la mattina, dal portone della sua casa, nella mia città e si trova catapultato all’improvviso dal silenzio alla ridda delle voci dei bancarellai, in mezzo alla verdura e alla frutta.

La suonatrice di liuto di Vermeer
E poi mentre cammina tra gli odori di cibo e i colori sgargianti dei prodotti della terra, gioiosi e giocosi come fare scienza o fare musica in maniera sperimentale, provando la fatica, ma anche l’entusiasmo legato alla curiosità e al desiderio di farsi meravigliare. In questo film immaginario penso che si potrebbe raccontare che Galileo, fino a 19 anni, non si era mai dedicato allo studio di quella che una volta scoperta, sarebbe diventata la sua disciplina preferita: la matematica. Credo che farebbe piacere sentirlo dire, ai ragazzi, che dovrebbero essere considerati strani e forse anche un po' preoccupanti quelli di loro che amano allo stesso modo tutte le materie, che non hanno preferenze, che non detestano qualche argomento di studio, ogni tanto, che non prendono mai, neanche una volta nella vita, un brutto voto o una nota di biasimo.

Sempre Vermeer, particolare della suonatrice di chitarra
Prima di scoprire la matematica aveva studiato la letteratura, scrivendo a sua volta, l’arte, dipingendo a sua volta e la medicina; ma soprattutto la musica, in maniera completa, suonando il liuto e studiando le proprietà fisiche delle corde nel loro vibrare e l’acustica. In quel film sulla sua vita che immagino e che, sia pure in senso metaforico, difficilmente verrebbe proiettato nei luoghi nei quali si parla alla maniera scolastica tradizionale di grandi studiosi, letterati o artisti, vorrei anche che si mostrasse che per sbarcare il lunario si muoveva, quel ragazzo e poi quell’uomo dalla chioma fluente e fulva, tra le teorie più sublimi e più astratte, le sperimentazioni scientifiche più ardite e l’industriosità di vendere oroscopi o qualcuna delle sue macchine prodigiose, come i compassi.


Se il film fosse quello che immagino e se lo proiettassimo e se facessimo la stessa cosa – dicevo fra me e me – per tutti i grandi che onoriamo quando c’è un anniversario o una ricorrenza, quegli studiosi, quegli scrittori e poeti, quegli scienziati, non parrebbero più così distanti, ai ragazzi. L’apprendimento, la conoscenza, la scienza, l’arte, la letteratura e la musica sono intessute, infatti, di una stessa, identica stoffa che è fatta di inquietudine e di passione. Il verbo “apprendere”, del resto, allude al gesto antico della prensione, dell’afferrare un oggetto interessante e bello con le mani e portarlo a sé e poi annusarlo, assaggiarlo, carezzarlo, come fa il bambino piccolissimo quando gli offriamo un dolce o un giocattolo.

giovedì 16 ottobre 2014

Di quale stoffa sono fatti i nostri desideri


I volti bianchissimi, come nella morte, le labbra che pur nel bianco e nero o nel seppia si indovinano in qualche modo vermiglie, perché è solo e tutto lì che si è raggrumato il sangue che ci fa vivi. E, ancora, gli occhi cerchiati tutt’attorno di nero, i capelli scomposti, corvini o bianchissimi, lo sguardo oltrepassante, tipico della follia in certe sue manifestazioni, il passo lento, solenne, cadenzato o a piccoli movimenti rapidi, in una specie di corsa grottesca e innaturale. E poi quella specie di “ebetudine stuporosa” degli occhi dilatati e di una sorta di stato catatonico, descritta dall’antropologia come difesa utilizzata per non essere catturati, perché così, immobili, fingendoci di pietra o già morti, nessun mostro predatore si impossessi di noi.


Come nel mondo della follia, infatti, nel film gli esseri umani si fanno cose, ma viceversa le cose sembrano animizzarsi, avere poteri umani, persino parlare. Il pavimento sghimbescio pare quasi spostarsi sotto i piedi, il soffitto abbassarsi, le pareti restringersi, le porte dilatarsi e spalancarsi come bocche sgangherate e terribili. Sono dipinti d'arte i fondali del film e la telecamera è fissa, come un occhio enorme, dilatato e immobile spalancato sull'infinito.






E’ stato un godimento totale, ieri sera, guardare su grande schermo la copia restaurata alcuni anni fa de “Il gabinetto del dottor Caligari”, per di più con la musica dal vivo. Un po’, personalmente, perché mi faceva pensare all’amatissimo “Nosferatu” di Marnau, successivo di soli due anni, ma anche alle lunghe mani di ragno, alla loro danza elegante e agli occhi cerchiati nel pallore del volto di Klaus Kinski, nei panni dell’altrettanto amato e più moderno e malinconico Nosferatu messo in  scena da Herzog.


Un po’ perché questo film racconta di tutte le questioni centrali sulle quali si interroga la filosofia, quella vera, fin dalle sue origini, a partire dalla domanda delle domande: se davvero questo tavolo che tocco o questo computer su cui sto digitando i miei pensieri, per renderli materiali e fermarli, siano più reali di quei pensieri stessi lasciati liberi o dei miei desideri, dei miei sogni, del mio fantasticare felicità possibili, delle mie paure e dei miei incubi.




C’è una realtà impalpabile, inafferrabile, ma profondissima, che prende nomi diversi a seconda del proprio sguardo sul mondo. In religione viene chiamata “anima”, ma io ne rivendico la natura indipendente e laica: è il nostro mondo interno, ma anche la nostra rete di affetti. Non si afferrano l’amore o la paura, eppure danno spessore e senso all’esistenza. Non si afferra il desiderio, non si afferrano i sogni che popolano le nostre notti e allo stesso modo non si afferrano i ricordi o il passato , eppure esistono e sono reali, sebbene fatti di un’altra stoffa rispetto a quella dei nostri abiti, con i quali ci nascondiamo o mascheriamo per il mondo. Sono la nostra storia, la nostra identità stessa.




Ecco: forse è questo che mette in scena il film, la nostra nudità emotiva. Una nudità che ci sgomenta e atterrisce perché rende meno significativo il confine tra il mondo della normalità, che si autodichiara tale, e il mondo della follia. Quando il dottore dei matti viene trattato come un matto, mentre si dimena disperato prigioniero dello strumento di tortura che in quegli anni segnava una distanza, data dal potere, tra chi rinchiude e segrega in un’altra realtà e chi vi è rinchiuso e segregato, noi siamo come ipnotizzati dal biancore.


E ci accorgiamo, allora, che i camici degli psichiatri e la camicia di forza dei pazzi hanno lo stesso colore: il bianco che annulla fantasia, sogni, deformazioni creative e colorate della nostra realtà; tutto ciò, insomma, che non ci fa sembrare scontato più niente e ci invita a pensare e a sentire con altri occhi.