domenica 23 ottobre 2016

Ci faccio un crocione


Questa e le successive sono tutte scene di cibo
tratte da film che ho amato
“Ci faccio un crocione!”. Questa frase, accompagnata dal dito indice che traccia nell’aria una X, tanto più ampia quanto più intensa è l’irritazione, in Toscana significa che in un certo luogo, esercizio commerciale, quartiere eccetera non ci torni più, potendo scegliere tra altri.


A me capita, però, che il mio primo crocione su un posto non sia definitivo e conceda una seconda prova, a volte una terza. Di solito servono solo a tracciare una X più ampia della precedente e così, infatti, è successo ieri sera. Il nome del locale non lo dico, perché non c’è niente d’illegale in questa piccola storia di furbizia dell’esercente e di stoltezza del cliente.



Ieri sera, dunque, nella mia piccola città in cui ho sempre più spesso la sensazione che la filosofia che sta prendendo piede sia che ognuno fa quel beneamato che gli pare, sono andata a teatro, alle 20.30, senza fare in tempo a cenare. Lo spettacolo meritava davvero e così, come accade dopo avere sentito una bella musica, al termine mi è venuto un certo languorino. Però dovevo anche finire un discorso con un’amica e quindi, invece di andare a casa, visto che abitiamo a poli opposti, ci siamo messe a cercare un locale in cui consumare un po’ di vino accompagnato, per me, da qualche stuzzichino.






Tipo aperi-cena tardiva. Ma c’era quasi ovunque la partita, quindi rumore, e molto affollamento. Così, dopo qualche inutile giro di sopralluoghi vari, optiamo per un locale del centro. Un locale striminzito, dove non ci si rigira e dove la porta è aperta per poter servire i due tavoli fuori, altrimenti non ci si passa, sulla soglia del quale avevo tracciato, qualche mese fa, il primo crocione.





Era successo una sera in cui ci eravamo recate lì per bere qualcosa in quattro amiche, due delle quali conosciute dal proprietario per esserci già state, poco prima della mezzanotte, finito il concerto del mio coro. Ci hanno chiesto se dovevamo cenare e al nostro diniego hanno detto che allora, il tavolo, non potevamo occuparlo perché lo lasciavano per chi, oltre a bere, mangiava. A mezzanotte???!? Sono rimasta sbigottita, anche per la malagrazia e poca intelligenza commerciale.





Prima di allora c’ero stata un paio di volte, invitata, e quindi non avevo visto i prezzi. Dunque, ieri sera, nonostante quel mio primo crocione, disobbedisco a me stessa. Ci sono solo tre tavoli, i sedili alti, il solito poco spazio. Ci chiedono se ceniamo (anche ieri sera era molto tardi) e rispondo che io mangio qualcosa e bevo, mentre la mia amica beve soltanto, per farmi compagnia.





L’uomo e la donna si guardano per decidere e poi dicono che sì, possiamo sederci. L’uomo ci porge con ampi gesti rotondi il listino, scritto in modo semi-illeggibile, composto di assaggini e crostini – tutto “ino”, anche il calice, a mio parere – mentre i prezzi dei piatti, calice escluso, sono “oni” per il prodotto offerto, cioè vanno dai 10 ai 18 euro. “Semmai mi aiuti” dico all’amica, immaginando chissà che porzioni. Ormai siamo sedute, non possiamo andare via...





Intanto mi accorgo che sta arrivando odore di sigaretta (succede un paio di volte) e dopo varie ricerche deduco che arriva dal retro, dalla cucina, divisa solo da una parete di legno+vetro che si ferma prima del soffitto. Mi dà molto fastidio perché sono ancora convalescente, ma siccome la mia amica, che è anche asmatica, non lo sente, mi convinco che sia una fantasia mia e che dipenda dal rimorso per quel primo crocione disatteso.





Arriva il piatto: quattro pezzettini di pane abbrustolito della dimensione di 5 cm per 3 con un sopra che non è né caviale, né paté, né tartufo per giustificarne il costo. Buoni, per carità, ma sinceramente il prezzo mi pare esoso. In qualsiasi altro posto li avrebbero messi a corredo del calice, aggiungendovi anche altro.





Mi è rimasta la fame, ma mi sono guardata bene, anche per principio, di aggiungere il dessert; e quel che è peggio è che, per giunta, sono stata sveglia quasi tutta la notte per malesseri legati, immagino, a quel cibo. Il crocione che ho tracciato ieri notte è il secondo, per quel locale, ma è definitivo. Non posso denunciare niente, ripeto, non fanno nulla di illegale e il danno ha il consenso dei danneggiati.





Mi chiedo amaramente, però: visto che si può scegliere, perché quel crocione, in casi come questo, non lo fanno in tanti? Perché a volte, questi esercizi pretenziosi e snob acquistano valore solo perché se la menano? Il pensiero critico non andrebbe applicato solo nelle grandi questioni, ma anche nelle piccole cose.


mercoledì 19 ottobre 2016

Disegnare la vita



Sono felice di non avere ceduto alla tentazione di addivanarmi che mi è piombata addosso in serata. Mi sono invece regalata 74 minuti di autentico piacere al cinema, nel guardare “Bozzetto, non troppo”, il film-omaggio di Marco Bonfanti a Bruno Bozzetto.


Non è solo perché amo visceralmente i film di animazione e perché Bozzetto è uno dei miei animatori preferiti per tutto ciò che ha realizzato, dai lungometraggi più famosi, ai cortometraggi, ai piccoli frammenti della durata di un sospiro o poco più.



Non è neanche solo perché quando ho visto per la prima volta al cinema “Allegro, non troppo” sono rimasta per tutta la durata immobile nella poltroncina e come ipnotizzata dall’armonia perfetta tra suoni e immagini in movimento. Ho pianto, con il Valzer triste di Sibelius, sulla desolazione del gattino che sogna un passato perduto per sempre, fatto delle poltrone del salotto buono e del tepore del caminetto e delle carezze, ispirato, come stasera ho scoperto, a un gatto vero, che era stato di Valeria, chiamata in famiglia Vally, cioè la moglie di Bruno Bozzetto.



E poi Ravel, a ritmare con il suo Bolero tutta la storia dell’evoluzione, e poi ancora l’ape e il suo picnic rovinato dai due innamorati che si rotolano abbracciandosi nell’erba, lungo le note del Concerto in do maggiore di Vivaldi, e ancora e ancora: immagini e musica, movimento e colori, linee magiche a racchiudere e rappresentare idee, sentimenti, desideri impalpabili, frammenti perduti del passato.



Con passo svelto e dinoccolato e, a 78 anni, con un fisico giovanile come nemmeno un cinquantenne, anzi, come nemmeno certi quarantenni che conosco, con lo sguardo acuto e ironico, BB ci guida nel suo giardino e poi nella sua casa, tra le persone, gli animali e gli oggetti che gli sono cari.



Così conosciamo la timida cagnolina bianca, l’inquieta e agitata cagnolina nera e la pecora gigante che crede di essere un cane e in casa si comporta come tale. E guardiamo lui che gioca come un bambino con loro, con i due nipoti, con la vita. E poi lo studio, il ballo in salotto con Vally, i quattro figli, in frammenti di video girati nei vari anni, insieme ad altri loro animali, compagni di viaggio nel tempo.


Il cancello della,casa di Bruno Bozzetto
Non è solo un racconto di vita, questo film, ma ci parla dell’arte di disegnare la realtà, disvelandone significati invisibili, e del suo senso. Ecco: mi sembra, adesso, di capire davvero meglio ciò che mi piace di Bruno Bozzetto ed è la sua capacità di mettere in dialogo gli opposti in maniera immediata, con le sue linee in movimento: il tenero e il duro, l’allegro e il malinconico, la pigra bellezza della natura e quella vivace della città.



Molti pensano che le parole siano il mezzo più adatto per spiegare le esperienze più complesse, ma guardando il film mi dicevo che non è vero. Mi dicevo che è proprio una grande fortuna essere capaci di esprimere attraverso i disegni quello che le parole non sanno dire o che tradiscono un po’. Di fronte alle emozioni e alle esperienze complesse sono proprio le parole a essere monche, unilaterali, parziali e pretenziose.


lunedì 17 ottobre 2016

Di sogni e di conigli



“Harvey” è un bellissimo film di Henry Koster del 1950. Non ero ancora nata, all’epoca, dunque l’ho visto solo in televisione e ogni volta ho sentito di amarlo ancor di più della precedente. Il protagonista, Elwood P. Dowd, interpretato da James Stewart, è un uomo dolce, affabile, sensibile e simpatico che afferma di avere come amico un coniglio bianco alto due metri (Harvey) con il quale condivide le passeggiate, la conversazione e ogni altra esperienza.


Questa sua bizzarria genera non pochi imbarazzi alla sorella, che di per sé lo accetterebbe anche così com’è se non avesse a che fare con le reazioni degli altri. Elwood viene internato, ma alla fine la sua illusione avrà la meglio e l’amico immaginario apparirà sulla scena dimostrando la propria esistenza allo psichiatra e agli stessi spettatori.



Ho amato questo film, molti anni fa, perché parla in maniera intelligente e tenera allo stesso tempo dell’universo della follia; cioè di qualcosa che tocca in maniera molto intensa la mia sensibilità e i miei interessi, allora come oggi. Ciascuno di noi esseri umani, folle o normale, ha i propri Harvey. 



Riteniamo di sapere per certo quali comportamenti metterebbero in atto in determinate circostanze le persone che ci sono care e quali, invece, non potrebbero mai e poi mai appartenere loro. Questo sentimento di certezza ha a che fare con la fiducia e, in ugual misura, con i sogni. E’ ciò che ci permette di lasciarci andare, di allentare le difese, di stabilire territori di intimità ben distinti rispetto a quelli nei quali ci sentiamo soli e incompresi; ma è, nello stesso tempo, ciò che ci rende fragili e dipendenti da coloro che amiamo, dall’immagine che abbiamo di loro che non solo ci piace, ma ci conforta e ci dà certezze e speranze indispensabili per attraversare le avversità senza esserne sopraffatti.




Può capitare di rimanere feriti dal comportamento di un gruppo o di una persona inconciliabile con l’immagine che ne avevamo e che ci piaceva, confortava, dava speranze e incrementava la nostra fiducia nell’umanità. Allora, se il dolore è particolarmente intenso, quando ci sembra di dover ridefinire tutto, i contorni delle cose e di noi stessi tra le cose, ci chiediamo, anche per il passato, se abbiamo avuto a che fare con persone reali o con amici immaginari da noi stessi creati per poter attraversare il vuoto e la mancanza di senso.


Quando questa domanda si affaccia alla nostra coscienza ci lascia scossi e come spersi in un universo che improvvisamente appare immenso e cattivo: un deserto freddo, notturno, senza orizzonti, mentre la sabbia si solleva in rapide spirali di vento e si posa sulla pelle, sui capelli e sulle vesti, cancellando le nostre impronte e annullando, così, anche i ricordi più cari.


Ma, forse, la domanda che dovremmo porci in questi casi è un’altra e ci viene suggerita dal film stesso. In una delle scene più toccanti il protagonista spiega allo psichiatra che sua madre gli ricordava spesso come nella vita occorra scegliere se essere astuti o amabili e che lui, pur sapendo che sarebbe stato più conveniente farsi astuto, aveva sempre ritenuto preferibile essere amabile. Forse dovremmo credere che l’avere generato illusioni di solidarietà e condivisione rispetto a gruppi o a singole persone sia comunque importante. L’illusione, infatti, non è menzogna e inganno; essa è fatica e costruzione razionale, ma anche, nello stesso tempo e soprattutto, leggerezza, fiducia, capacità di mettersi in gioco e di rischiare le proprie sicurezze.