domenica 31 luglio 2016

La calunnia è davvero solo un venticello?


La bocca della verità in "Vacanze romane"
A chi non è capitato di incappare in reti di calunnia o quanto meno di falsità? A chi non è capitato di esserne vittima, almeno una volta? Leggo la cronaca e tra le altre notizie anche quella del falso stupro che avrebbe subito una donna “di origine pisana”, come hanno sottolineato, con calcolata furbizia, giornali e post di facebook, a opera di tre (inesistenti) nord-africani. Ripenso ai commenti che ho letto e che mi hanno fatto accapponare la pelle. Troppe volte crediamo a ciò che ci fa comodo credere, senza verificare, senza ragionare, senza prenderci un po’ di tempo per capire; nel pubblico come nel privato.
"Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi un po' di menzogna." (I demoni, di Fëdor Dostoevskij)
Fedra, Alexandre Cabanel 1880. 
Ci sono persone che mentono costruendo per se stessi un’interpretazione di comodo delle proprie vicende di vita alla quale, prima di proporla ad altri interlocutori, finiscono anche per credere. Si presentano sempre come vittime della cattiveria di altri o dei loro difetti, mai responsabili, almeno un po’, della propria infelicità o di quella altrui. Mi è capitato, alcune volte, anche di avere la prova di una calunnia che mi riguardava e allora ho provato un grande dolore. Non me l'aspettavo, stentavo a crederci.

Fedra, particolare
Mi è capitato anche che fosse attribuito a me un sentimento o un comportamento negativo che era proprio, invece, della persona che me lo attribuiva. Per esempio, non so, ero stata ferita e la persona responsabile diceva in giro di essere stata ferita da me; oppure chiudevo un rapporto – di varia natura e tipologia - e la persona coinvolta diceva un giro che era stata lei a chiuderlo.

Sarah Bernhardt nella Fedra di Racine, 1915. 
(Fedra, calunniatrice e disperata)
Gli esempi potrebbero essere anche di più, ma non importa che li enuclei: si tratta di qualcosa che sicuramente è banale e che almeno una volta è capitato a tutti di provare. Il fatto è che per ogni persona che mente c’è sempre qualcuno pre-disposto a credere che dica la VERITA’ perché questa presunta verità lo rassicura per un motivo e per un altro. Vale nel sociale e vale nel privato, lo ripeto.

Sarah Bernhardt, un'altra Fedra, 1910
Guardandomi indietro mi viene il desiderio, a volte, di chiarire con questa o quella persona quale sia stata la verità di certe circostanze che mi riguardano e di cui ha avuto il racconto da altri. Poi mi dico che bisogna imparare a lasciare andare, a perdonare anche le bugie, se frutto di paura e debolezza, confidando nel futuro e nell'intelligenza degli altri. Sono considerata una persona forte e non so se a torto o a ragione; ma forse, se questo è vero, lo è in un aspetto: non porto rancore, mi farebbe anche fatica. 

Ancora Sarah Bernhardt-Fedra, in una bella foto di Nadar
La verità non è quasi mai ciò che ci racconta questa o quella persona, ma abita nell’intreccio tra ciò che ascoltiamo, 
ciò che ci mettiamo di noi, cioè le identificazioni e le proiezioni, e l’obiettivo per cui quella persona si confida con noi: per esempio i desideri di rivalsa, di vendetta, di riscatto, ma anche le paure e le speranze che la agitano. Continuo a leggere le notizie e la cronaca e penso una cosa: abbiamo una vita sola, perché sprecarla? Nessuno ce la restituirà e non potremo cambiare il passato o cancellare gli errori.

Sarah Bernhardt, sempre in una Fedra
Considero alcune vicende d’infelicità che conosco e penso di nuovo che abbiamo una vita sola: perché sciuparla con la fatica del portare rancore o con quella della menzogna? Perché preoccuparci dell’apparenza invece di ammettere la nostra fragilità senza vergognarcene? Siamo fragili, a volte fino al punto di rinunciare alla comprensione altrui profonda pur di “salvare la faccia”, come si dice comunemente, ma così facendo rischiamo di perdere la nostra anima. E rimaniamo soli e impauriti, con solo la nostra falsa faccia salvata a farci compagnia.

Tullio Crali, Incuneandosi nell'abitato (In tuffo sulla città), 1939
Abbiamo una sola vita: conviene forse provare a viverla con maggiore onestà e cercando di fare meno male possibile a chi ci cammina al fianco. Anche perché la verità ha molti volti compresenti e a volte contraddittori e solo attraverso il loro dialogo ci si può davvero salvare dalla menzogna. 

domenica 24 luglio 2016

Strani traslochi

 
Aprile 2016: le ultime foto scattate nel giardino della casa dei miei. (Questa e le altre)
Nei miei ricordi di bambina ci sono anche quelli delle espressioni di lutto. Al mio paese il lutto si traduceva, per le donne, con il vestirsi di nero per un tempo variabile a seconda del grado di parentela o anche per sempre, per le vedove, e per gli uomini con un nastro nero alla manica della giacca, all’altezza del braccio, o con un grande bottone nero di stoffa pesante all’occhiello, sempre della giacca, sul risvolto del collo.


Poi c’erano le interdizioni; per esempio non si doveva andare al cinema e - se ci fosse stato, ma non c’era - nemmeno a teatro né dedicarsi ad altri divertimenti pubblici o privati. Se si scriveva bisognava listare di nero con la penna il foglio e la busta o, a scelta, tracciare in un angolo in alto un segmento nero. Poi c’erano, ancora, le tappe prefissate del ricordo: dopo un mese, dopo tre, dopo nove e non so più quali altre. C’era una partecipazione collettiva al lutto. Quel nastro o quella patacca nera alle giacche degli uomini, che da ragazzina mi sembravano così obsoleti e che a volte trovavo persino ipocriti, ora li capisco un po’ di più. Tutti quei segni servivano per palesare agli altri che anche se si diceva buongiorno o buonasera con il sorriso sulle labbra dentro di noi c’era una ferita aperta e sanguinante. Ci si sentiva avvolti e protetti dalla consapevolezza di chi ci avvicinava e meno soli nel proprio dolore. 



Oggi ci si vergogna persino un po’, quando si è in lutto. Si teme di essere noiosi, inopportuni, egocentrici. Ci si sforza di non andare con la conversazione su quell’argomento, che invece è sempre lì in agguato, come un tarlo, in qualche angolo della mente.



Ci vogliono fino a due anni, secondo la maggior parte degli studi, per elaborare un lutto. Cioè perché un dolore aggressivo si trasformi in un dolore dolce. In questi due anni la persona che non c’è più accanto a noi viene ad abitare dentro di noi per vivere di una diversa vita. Un po’ come se traslocasse, si sposta da fuori a dentro di noi con tutte le sue foto, i suoi oggetti più cari, la sua immagine riflessa dallo specchio, la sua risata, il suo sguardo.



Ma finché tutto questo trasloco dal fuori al dentro di noi non è finito, ci si sente strani. Capita anche che si abbia voglia di rivedere tutto: le gerarchie delle cose che contano di più e di quelle effimere, che non sedimentano niente, che non seminano e non hanno germogli.



Le nostre relazioni le passiamo al vaglio con severità anche eccessiva, tagliando fuori il dubbio o l’attesa, e nostro malgrado assumono un diverso significato in relazione alla prova del lutto. Sopravvivono quelle nelle quali ci si è sentiti più liberi di essere se stessi, di portare il proprio dolore muto sapendo che ne saremmo stati consolati con abbracci e parole.



Come le relazioni, anche gli oggetti si caricano di significati nascosti, magici. Possono avere poteri malefici, precipitarti nel baratro del non senso, oppure benefici, strappandoti un sorriso per il ricordo di gioia che hanno resuscitato.



Due anni fa ho traslocato da una casa a un’altra, con grande strapazzo, fatica, disorientamento dovuto a quell’altalena di paura e di speranza che le novità importanti portano sempre con sé.



Questo trasloco di ora, però, dal fuori al dentro, è molto, molto più duro. In questo momento sono proprio in mezzo al guado. Non ho voglia di fare vacanze o di festeggiare il mio compleanno imminente, e sarebbe la prima volta. Spesso sento  il bisogno di avvolgermi di silenzio, evito lo spreco di energie, cerco di concentrarmi sulle cose che contano e sugli affetti che mostrano maggiore generosità e solidità.



E’ un'altra domenica mattina di lutto, questa. Tutto procede regolarmente. Ho avviato la lavastoviglie, preparato la lista della spesa e quella delle mail da scrivere. I gatti sono qui, vicini. Certo non sanno perché da più di due mesi i miei gesti sono diversi e il mio passo dentro la casa più incerto, ma capiscono che qualcosa non è e non sarà più come prima e mi osservano con quei loro occhi grandi e spalancati.



Poi si avvicinano, a turno, per strusciarmi al polpaccio i loro feromoni della felicità e rendermene, così, anche un po’ partecipe. Gli avvolgibili sono abbassati quasi del tutto, per lasciare che le ombre si muovano, amiche, dentro la casa. La lavatrice ha terminato il suo ciclo e non c'è più minaccia di pioggia. Vado a stendere, con questo caldo asciugheranno presto.


martedì 12 luglio 2016

Ciò che perdiamo, ciò che resta.

Pontremoli dalla finestra del Castello del Piagnaro, luglio 2016
Oggi è stata una giornata rovente e avrei ancora tante di quelle cose da sbrigare che solo a pensarci mi sento male. Ho deciso di ignorarle e di mettermi a scaricare le foto scattate domenica scorsa in un luogo per me pieno di memorie, ma riordinandole mi è venuta voglia di scriverne.

Pontremoli, verso il Castello, luglio 2016
Pensavo, infatti, che in questi ultimi anni la mia vita è stata costellata di molte perdite. Non vedrò mai più certe case, certi mobili, certi quadri alle pareti, certi anditi scuri. Non vedrò mai più certe persone care, non intreccerò più parole e risate con loro, non condivideremo del buon cibo o del buon vino.

Pontremoli dal Castello, luglio 2016
Non ci sarà mai più, ad attendermi, la mia cara Sibilla dalle lunghe vibrisse, dopo tanti anni in cui è stata testimone paziente della mia vita, né la piccola Margot che mi aveva un po’ consolato della sua perdita.

Il verde tenero di una cupola tra il grigio dell'ardesia dei tetti
Domenica mi trovavo a Pontremoli, nei luoghi dei miei nonni paterni e di mio padre, e perciò anche di molte gite dell’infanzia. Ci arrivavamo con la 600 e poi con auto più grandi, ma durante il lungo viaggio i miei finivano prima o poi, immancabilmente, per discutere di quell’abitudine al vino e al brindare con ogni possibile pretesto, caratteristica della Lunigiana, che mia madre aveva un po’ in uggia. Soprattutto ai bambini no. Diceva. E anche tu non esagerare. Diceva. Ma lui, appena entrato nel territorio che sentiva suo, tornava a essere uno di loro e in ogni casa di amici o parenti in cui entravamo era tutto uno stappare rumoroso e allegro di bottiglie.

Attraversando ponti antichi, Pontremoli, luglio 2016
Ho ritrovato ogni cosa, muovendomi quasi con circospezione e con tutti i sensi allertati, olfatto e tatto compresi.

Pontremoli, luglio 2016
Le pietre nere, i tetti di lastre di ardesia sovrapposte, l’acqua zampillante e fresca, i muretti, i torrenti, quella torre campanaria che i miei nonni chiamavano, come tutti in zona, “il campanone”, il duomo con i suoi ricami di verde chiaro e d’oro, i vicoli stretti e bui, gli archi, i vecchi lampioni, la salita erta verso il castello del Piagnaro, i filari di viti quasi dentro l’abitato, visibili da ogni affaccio, così come gli antichi alberi di fico.

Il Campanone con il suo orologio. Da bambina mi sembrava altissimo.
E poi i ponti romani o medievali, dalle lunghe forme sinuose e l’acciottolato ostile del pavé grigio.


Ogni volta che  venivamo mio padre si fermava alle fontane per bere e poi inneggiare alla freschezza e al sapore di quell’acqua.

La fontanella, Pontremoli, luglio 2016
Ho fatto anch’io così, domenica, riempiendo a più riprese una piccola boccetta da tenere nello zaino. Brava, fai bene, senti com’è buona? Mi sembrava quasi di sentirlo sussurrare con quell’inflessione sua caratteristica che un po’ aveva mantenuto la dolcezza del dialetto di quelle zone di conquista, attraversate da eserciti diversi e soggiogate da re e imperatori.

Pontremoli, luglio 2016
Pensavo a quante lingue dovevano avere risuonato tra quelle pietre, arrampicandomi sotto la calura, per la salita ripida che porta in alto, al castello, e ancora entrando nelle sale nere del museo e lasciandomi affascinare dalla pietra ocra delle stele.

Stele maschile (ha il pugnale), Pontremoli, luglio 2016
Stra
ne creature di arenaria, le stele. Effigi di morti, oppure indizi per l'orientamento del viandante o ancora figure di divinità dimenticate. Sibilline e misteriose.



Stele femminile (ha il seno)
Emerse quasi per loro scelta da un passato arcaico, nascoste sotto la terra e silenti per secoli, per sfuggire alla furia religiosa che le avrebbe distrutte come testimoni odiati di riti pagani e credenze mai del tutto dimenticate anche se sconfitte e messe in ombra dall'ascesa della nuova religione.




Più tardi, togliermi i sandali e camminare nell’acqua fredda del Magra, giù, in basso, è stato come salire nella macchina del tempo e nel mistero delle cose perdute che riaffiorano all'improvviso e inaspettate dal passato, proprio come le stele.

L'acqua scorre veloce e indifferente. Fiume Magra.
Tanti anni sono passati dalle infanzie estive con i nonni e i loro fratelli e sorelle, eppure sembra ieri. Le cose perdute possiedono dunque una casa, un luogo che le accoglie e custodisce gelosamente, mentre le esperienze che sappiamo lontane vivono ancora in un loro presente, da qualche parte, proprio dentro di noi.

Ponte antico e fiori, Pontremoli, luglio 2016

































L'interno del Duomo, Pontremoli, luglio 2016
Particolare del portone del Duomo. Da piccola mi pareva di avere davanti un enorme album di fumetti con le storie sacre.






La vite, ovunque. Simbolo di vita "spiritosa".
Salendo al Castello. Dopo la calura l'ombra, finalmente



Nel castello








Il Magra.








Osteria per finire con i testaroli al pesto.
La luna, il lampione, la malinconia.

La luna soltanto, salutando un'altra volta.