lunedì 28 marzo 2016

Le bugie

Berlino, 2009
Sulla questione della menzogna, in fondo, la penso ancora come quando ero un’acerba adolescente: bisognerebbe trovarsi sempre nella condizione di non dover mentire. Non voglio dire che si debba essere come libri aperti; al contrario, penso che sia un diritto di ciascuno di noi quello di poter tenere per sé alcuni sentimenti o pensieri e di selezionare i destinatari delle nostre confidenze. Però questo è diverso dal mentire continuativamente, cioè dall'abitudine inveterata e ripetuta a farlo.

Berlino 2009
MENTIRE: che brutta parola, che brutto vivere se il mentire è un'abitudine e se riguarda il mostrarsi come non si è regalando agli altri un'immagine artificiosa di noi! Mi sembra che le motivazioni delle menzogne tipiche di questa epoca siano di un segno nuovo. Il mentire di oggi non ha lo stesso significato del mentire di una volta, ma è diventato la metafora o l'espressione di un modo di concepire i rapporti che è di mero uso o consumo degli altri. Un tempo si mentiva per lo più perché ci si vergognava di una nostra azione e si voleva mostrare, soprattutto alle persone care, il nostro volto migliore. Oggi mi pare che si menta sempre più per paura e per egoismo. Mi pare che si menta perché conoscere la verità e non disvelarla è un esercizio di potere sugli altri e dunque si è meno fragili se non ci si mette, con la nostra verità, nelle loro mani.

Barcellona, 2013

C’è del buono anche nel sapere dire bugie e questa affermazione non è in contrasto con quanto ho appena scritto. Imparare a dire qualche bugia, da bambini, è un aspetto essenziale di crescita; è il segnale della conquista di un’autonomia di pensiero. Ci sono autorevoli studiosi che l’hanno dimostrato, ma per il registro comunicativo scelto in questo blog sarebbe stonato che ora mi mettessi a fare citazioni e note al riguardo. Diciamo, quindi, sulle inevitabili bugie, che tutti siamo costretti a dirne, di tanto in tanto, e soprattutto in determinati contesti formali.

In altri anni
Personalmente, però, non sono molto capace di mentire, specialmente nella sfera delle relazioni intime, e non perché sia una persona chissà quanto virtuosa, ma più semplicemente perché non sopporto la fatica che è correlata alla bugia. Ho sempre pensato che un legame che porta a dover mentire all’altro, a calcolare troppo le cose da dire, rispecchi un’assenza di fiducia e di coraggio. 

Nuda Veritas, Gustav Klimt, 1899 (part.)

Per Klimt la Nuda Veritas erano quei peli pubici femminili così realistici, rossi come i capelli della sua compagna, con i quali scandalizzò la sessuofobica Vienna fin de siècle.

Nuda Veritas, Gustav Klimt, 1899 (part.)

Per noi, oggi, la verità è correlata al coraggio di essere se stessi senza che questo si accompagni al calcolo e all'egoismo. (Mi sono sempre piaciute molto solo le persone che uniscono la generosità al coraggio). 




mercoledì 23 marzo 2016

Paure e fiori colorati

Sulla strada da Volterra a Montecatini Val di Cecina - Marzo 2016
(Questa e tutte le successive)
Il tempo di scendere dall’auto in questi giorni non ce l’ho. Accosto, apro il finestrino, prendo la macchina fotografica appoggiata sul sedile del passeggero e scatto.


Fotografo per lo più le distese di fiori di campo o il verde tenero di questo inizio di primavera e poi le siepi di biancospino, quei rovi aguzzi di spine, ma ora coperti di fiorellini bianchi e come ogni anno in anticipo su tutte le altre più arroganti e chiassose fioriture.



Fotografo qualcosa che sa di rinascita e di vita. Succede da quando è iniziato, ormai due mesi fa, questo periodo di preoccupazione per la salute di mio padre. Continuo a farlo anche ora che è stato dimesso, ma è sempre molto debole e c’è da affannarsi per le medicine, per le ricette, per le analisi, per la riabilitazione, per procurarsi questo o quell’attrezzo, per consolarlo, per incoraggiarlo.



Fotografo i fiori e i campi per non fissarmi su certi sentimenti troppo malinconici. Fotografo i fiori e i campi per non cedere alla tentazione di pensare che non esista il senso: degli affetti, dei legami, dell’esistenza stessa.



Lo faccio anche per  combattere le insicurezze legate all’idea che tutti siamo destinati a invecchiare; a perdere, con gli anni, le forze psicofisiche e magari l’autonomia.



Andando così spesso su è giù dal mio paese di origine alla città in cui vivo e sforzandomi di portare avanti tutto lo stesso, il lavoro e le lavatrici, le tesi da correggere e la spesa da fare, continuo a cercare serenità nel fotografare i paesaggi così belli in cui sono nata e cresciuta. Li conosco palmo a palmo, radice dopo radice, curva dopo curva di ogni strada, eppure mi sembrano nuovi a ogni primavera.


La piccola auto azzurra e ormai provata dal tempo scivola sulla strada, si ferma e riparte subito  mentre dalla radio arrivano le mille voci del mondo e la mente si lascia andare, dato che i ricordi la invadono. Allora l’incertezza del futuro copre per qualche attimo ogni altro sentimento con quel suo sapore agro-dolce che vorrebbe mischiarsi, qualche volta, a quello salato delle lacrime.



Altra tristezza, altre angosce per le morti ingiuste, in Spagna, si sommano a quelle precedenti e le amplificano arrivando da un altrove lontano; e di nuovo fotografo, anche per quelle ragazze sorridenti nella prima pagina dei giornali, i fiori bianchi, gialli e azzurri che non potranno mai più vedere.


Al cinema, due sere fa, il capolavoro di Murnau, Faust, mi parlava ancora di tutto questo, delle paure e dei fiori, degli affanni e del peso della vecchiaia, ma anche del fatto che si può rimanere giovani rispecchiandoci negli occhi di qualcuno che amiamo e che ci ama.


Faust, Friedrich Wilhelm Murnau, 1926
Quel film raccontava dell’insensatezza umana; mostrava i colori cupi dell'assurdità del male e, in inquietante contrasto, sogni di baci e abbracci di innamorati in mezzo a prati fioriti.

Faust, Friedrich Wilhelm Murnau, 1926

O forse ero soltanto io che leggevo, anche in quei bellissimi giochi di luci e ombre, alcuni dei miei pensieri di questi giorni originati dalla situazione particolare che mi trovo a vivere.




Infine, ieri, le immagini dell’orrore, i morti di Bruxelles. Anche per quelli bisognerà fotografare molto, fotografare fiori e campi verdi per ricordarsi della vita e ribadire la gioia di poterne godere, nonostante tutto questo dolore.





Accosterò l'auto senza nemmeno spegnere il motore. Il tempo di scendere per cercare le inquadrature più belle è un lusso, in questi giorni affannati, l'ho già scritto all'inizio. Accosterò l'auto, aprirò il finestrino, lascerò entrare i profumi dei campi e fotograferò ancora tanti, tantissimi fiori di questa primavera malinconica e i biancospini vestiti a festa. 






domenica 13 marzo 2016

Quella nostra paura della libertà

In questa scena del film la donna intreccia collane di gusci d'uovo rotti e disegnati. Il guscio, la stanza, la prigione.

Ieri sera ho visto Room e mi sono coinvolta molto. Il film racconta una storia terribile, passando attraverso la trasfigurazione di un romanzo che non ho letto, relativa a una vicenda di cronaca nota anche se un po' diversa (il caso Fritzl del 2008).


Il film è coraggioso, forse perché assume come punto di vista quello del piccolo protagonista. Ha  solo cinque anni quel bambino; e pensa, come Sansone, che la propria forza sia racchiusa nei lunghi capelli che a un certo punto sacrifica anche lui per amore di una donna: non Dalila, ma più banalmente sua madre e non per un amore ingannevole, ma per uno profondo e autentico.


Il "Sansone prigioniero" di Annibale Carracci

Come tutti i bambini il piccolo Jack-Sansone desidera e  sogna un cucciolo di cui prendersi cura: per essere insieme oggetto e soggetto della propria capacità di volere bene identificandosi con quel cucciolo stesso, ma anche per sentire che il prendersi cura di qualcuno è una certezza relazionale condivisa e che gli abbandoni sono solo paure rappresentate nelle fiabe. La scena in cui Jack finalmente carezza un cane vero e poi lo fa correre ed è libero insieme a lui, all’aperto, tra gli odori multipli e strani della strada e del prato, mi ha fatto piangere; ma non ne farò il fulcro di queste parole di ripensamento, perché ormai l’ho promesso, scherzandoci un po’ su, a chi ha condiviso con me la visione del film. 





A fare corona attorno al bambino c’è la fragilità di tutti gli altri, degli adulti: la nonna, che deve giustificare il proprio diritto alla realizzazione sentimentale di sé, acquisita nonostante il dolore legato alla scomparsa misteriosa della figlia; il nonno, che non può guardare il faccia il bambino nato dalla violenza subita dalla figlia e non sa riconoscerlo indipendentemente da quell’origine da cui si sente offeso come padre; la madre stessa, la co-protagonista, attanagliata dal rimpianto degli anni che non recupererà più e dal ricordo di quel legame appiccicoso con il proprio carnefice e aguzzino. Un legame accettato, in parte – “Vieni  a letto, ti prego” – per proteggere il figlio dirottando su di sé tutta la smania di possesso di lui. E lui, l'orco cattivo, indistinto e stolido, non so come mi faceva una specie di pena nauseante nel mentre mi generava rabbia; analogamente a quanto mi capita pensando a tutti quelli che hanno bisogno di controllare, di imprigionare, di possedere in vari modi qualcuno per avere rapporti sessuali con lui.


Per possedere un'altra persona, inutile ricordarlo, si possono usare modi letterali, come nella vicenda raccontata dal film oppure come nel mercimonio della prostituzione, o altri subdoli e più raffinati, legati alla definizione dell’altro e della sua identità, che si spingono fino al cercare di plagiarne i sentimenti, i punti di vista e persino i gusti.



Jack-Sansone conosce solo il cielo visto dal lucernario della sua stanza, chiusa come una cassaforte; e il mondo si limita ai poveri oggetti che l’arredano e al guscio caldo dell’abbraccio materno. Quando è fuori si chiede, Jack, se è stato catapultato insieme alla madre in un altro pianeta. 


Per Jack-Sansone il mondo è la sua stanza-cella simbiotica e condivisa in due. Un utero gigante e cattivo-buono che come tutte le situazioni di prigionia genera una sorta di mefitica e distorta sensazione di sicurezza, che crea a sua volta una dipendenza malsana e persino è capace di far sorgere rimpianti una volta che si è esposti all’ebbrezza della libertà.

Soren Kierkegaard
Il filosofo dell’angoscia per eccellenza, Kierkegaard, questo, molto in soldoni, ci diceva: che l’angoscia nasce dalla vertigine della libertà, dalle ali che ci permettono di volare e di scegliere la rotta del nostro volo obbligandoci a vagliare possibilità diverse e a rischiare di sbagliare e di procurarci noi stessi dolore. I prigionieri della caverna di Platone, del resto, incatenati fin da molto piccoli nel loro antro che credevano il mondo, con anche la testa e il collo bloccati in modo che potessero vedere solo il muro che avevano di fronte, erano convinti allo stesso modo di Jack che la realtà fosse quella delle ombre proiettate su quel muro stesso. 

Il Platone di Raffaello
Il prigioniero liberato, uscendo ed esponendosi alla luce del sole, avrebbe provato - ci dice Platone - un intenso dolore; sarebbe stato ferito agli occhi da quella luce abbagliante. Si sarebbe abituato piano piano, però, e allora, provando pietà per i compagni ancora prigionieri, avrebbe voluto tornare nella caverna a cercare di liberarli, ma non sarebbe stato creduto a avrebbe fallito.


Allo stesso modo un feto protetto nel suo utero acquatico non sa niente del mondo fuori, neanche del respiro, di quel riempirsi e svuotarsi d’aria che scandisce l’essere vivi. Né degli odori, né delle luci, dei colori, dei gusti dei cibi e di quelli dei baci e delle carezze. Vuole nascere, a un certo punto, si è fatto ingombrante per quel guscio e non si può più muovere.






E finalmente viene al mondo, alla libertà di percepire, di carezzare ed essere carezzato, di abbracciare e di distaccarsi con quello stesso ritmo che è proprio del respiro, appunto, e che genera una dialettica incessante tra pieno e vuoto. Nasce alla libertà, ma manterrà sempre sopito in qualche parte di sé quel rimpianto, che è una tentazione costante, legato alla ricerca di sicurezza-prigionia.




Hegel


Viene in mente un altro filosofo - e mi scuso se in questo post ce ne sono troppi e se il loro pensiero può apparire semplificato - ed è Hegel, che in un frammento giovanile, "Libertà e destino" (ma il titolo, che a me piace, non è suo, e spesso il testo è citato comunemente con l'incipit: "La contraddizione sempre crescente..."), ci ricorda come queste due opposte condizioni non possano che intrecciarsi tra loro e l'una non possa esistere senza l'altra.


Hegel (da giovane)
Trovare un equilibrio mobile - l'ossimoro è voluto - tra desiderio di libertà e trasformazione da una parte e bisogno di sicurezza e ripetizione abitudinaria dall'altra è, forse, il segreto dell'unica felicità possibile.




Il film è bello perché non allude solo a una vicenda di cronaca eccezionale e terribile, ma riesce a farne una narrazione che ci coinvolge nel profondo e parla di noi tutti, venuti al mondo e alla libertà, ma pronti a essere preda delle più svariate paure quando si tratta di scegliere, di rischiare l’errore o il dolore, di rompere abitudini che portano con sé la sicurezza del controllo. Vittima e carnefice, in fondo, sono avvinti nello stesso nodo che è quello del rapporto tra prigionia e libertà, tra sicurezza e rischio di volare senza protezione alcuna nel mondo.