domenica 30 aprile 2017

La gratitudine del ciliegio

Iris, Montecatini Val di Cecina, 28 aprile 2017
(questa e tutte le altre foto)
Ci aveva provato in tutti i modi a renderlo fruttifero; l'aveva fatto innestare varie volte e curato in ogni modo, ma inutilmente. L'albero, testardo, si mostrava resistente a ogni tentativo di rendersi utile; e si mostrava anche, se così si può dire, piuttosto ingrato.

Montecatini Val di Cecina e alle sue spalle il profilo della collina di Volterra, 28 aprile 2017
Sto parlando di mia madre e di un piccolo ciliegio che ora ha superato la mia altezza ed è, nella sua categoria, una specie di adolescente alla soglia dell'adultità. Ma la cosa strana e tenera è un'altra.


Qualche giorno fa, e proprio nella data in cui un anno prima era morto mio padre, sono andata alla casa dei miei. Come ogni volta, e come facevo anche quando la casa era viva di rumori e odori legati alla preparazione di qualche mega-pranzo familiare, per prima cosa ho salutato il giardino e la terra, davanti e dietro.


Ricorsivamente, infatti, quella lunga striscia erbosa sul davanti e il rettangolo più grande sul retro, così come il triangolo scaleno, all'entrata, hanno sempre regalato colori e fioriture, feuillage e frutti in relazione alla stagione. Dunque mi aspettavo, per esempio, gli iris colorati di mia madre: e c'erano gli iris viola, gialli e bianchi.


Nessuna sorpresa - mi dicevo - e il mondo va avanti, per conto proprio, qualsiasi cosa ci capiti, mentre la natura è indifferente alle nostre beghe umane e a volte, se la sua bellezza contrasta con un nostro stato d'animo del momento, ci pare addirittura crudele. Dunque camminavo a passi lenti tra ciò che mi aspettavo di trovare e trovavo quando, ormai arrivata vicino al ciliegio ingrato, ho alzato gli occhi nel considerare quanto era improvvisamente cresciuto.




L'evento inaspettato, però, è stato il fatto che ho intravisto nella trasparenza delle foglie rese brillanti dal sole, le ciliegie: ancora verdi, certo, ma indubitabilmente ciliegie. Ciliegie che diventeranno rosse o amaranto - non mi intendo troppo di alberi, dunque non so dire di quale specie di ciliegie si tratti - e che potremo cogliere e mangiare.





Ma come sarò assurda? Lo dico perché quelle ciliegie acerbe mi hanno riempito il cuore di non so quale strana gioia, ma anche di tanti pensieri che mi parevano profondi e forse erano solo sciocchezze. Però, diciamo, in un giorno in cui ragionavo sul senso e l'impermanenza delle cose belle, la gratitudine inaspettata e in ritardo del ciliegio mi ha colpito come un segno diretto proprio a me e ha cambiato la coloritura dei miei pensieri.

Le ginestre
Così, nella lunga passeggiata che è seguita per andare a pranzare un po' distante dal paese, mi sono messa a fotografare i luoghi noti usando una prospettiva inusuale.



Gli occhi erano tutti per le piante umili e selvatiche che sembrano inutili, per i fiori di campo che crescono senza altra sollecitazione se non quella data dalla pioggia e dal sole nel loro ritmico alternarsi.




Il nostro affanno, la pretesa di volgere il corso degli eventi con la sola forza del desiderio ci rende spesso velleitari e infelici prigionieri del passato. Le ciliegie inaspettate mi hanno suggerito che è inutile torturare se stessi all'idea di essere stati preda dell'autoinganno, in positivo o in negativo.




Cioè di avere scambiato non di rado il brutto per qualcosa di bello ma altre volte, al contrario, di non avere saputo riconoscere il bello in ciò che ci pareva brutto o inaffidabile. Mi piacerebbe tanto, però, poter dire a mia madre che, alla fine, le sue cure rivolte al ciliegio hanno avuto un risultato! Chissà come ne sarebbe felice!



mercoledì 19 aprile 2017

I giorni strani

Marina e Parco - Vecchiano, 17 aprile 2017
(come tutte le altre foto di dune e di acque di questo post)
Sono giorni strani questi. Giorni di festa trascorsi senza andare neanche una volta, neppure a corsa e in fretta, al mio paese; ma fa troppo male sapere che non c'è nessuno a guardare l'orologio, a chiedersi il perché di un ritardo, a preparare la tavola, a scrutare giù in basso la strada che si inerpica tutta curve e tornanti.

Caldine (Fiesole), 16 aprile 2017
(come tutte le altre foto di ulivi, prati e fioriture di questo post)
E farebbe ancora più male la partenza, senza più chi ti dice di guidare con prudenza e di non correre e tu che reagisci in qualche modo e pensi a come quella reazione è cambiata tante volte nel corso degli anni.




C'è stato un tempo in cui sbuffavo infastidita; poi, quando me ne venivo via con il bambino piccolo nel suo seggiolone, e caricavo con il ciuccio, il biberon e i pannoloni tutta una montagna di "occorrente", è stato il momento della risposta ironica e della battuta; e diverso tempo dopo,  fino allo scorso anno, di fronte alla fragilità di chi mi salutava, ho solo cercato parole capaci di rassicurare.



Così, domenica, mi sono ritrovata a passeggiare per altri ulivi rispetto a quelli consueti e a socchiudere gli occhi per concentrarmi sull'argento delle loro piccole foglie, tanto diverso dal verde vivo dell'erba, tanto delicato in contrasto con il cielo azzurro della primavera nel pieno della sua arrogante bellezza.



E per tutto il lungo camminare un po' ho mentito a me stessa, fingendo di essere in un'altra campagna, a respirare l'odore di un'altra terra, più familiare e che mi è sempre sembrata più antica di tutte le altre che ho conosciuto.



Mi sono sentita strana anche il giorno dopo, tra le dune del parco di Vecchiano.



Ci andavo insieme ai miei compagni già quando ero studentessa e quasi sempre ci portavamo dietro qualcosa da mangiare e bere e poi facevamo notte con le chitarre e con le chiacchiere.



Ci sono tornata regolarmente, nel corso degli anni, per lo più in primavera e per un paio di stagioni anche d'estate, alla spiaggia attrezzata. Ma sono giorni strani, questi, e mi pare diverso anche ciò che più mi è stato familiare nel tempo. Succede, credo, quando per qualche motivo è necessario ridefinirsi un po'.



Gli ingegneri, riferendosi ai materiali che resistono agli urti e ai traumi, parlano di "resilienza". E in ambito psicologico, da un po' di tempo, questo termine è stato importato in riferimento alla capacità delle persone di trasformarsi per non farsi sopraffare dalle perdite.



Sono giorni strani, questi, perché ci sto provando a ridefinirmi e a essere resiliente, ma nel farlo mi perdo sempre un po', come se non volessi riconoscere del tutto il mondo.



Ieri sera, ormai uscita dalla modalità vacanza, ho cambiato programma all'improvviso e sono andata al cinema a vedere un film strano con l'intento di sentirmi meno strana io, cioè  di riconquistare il senso della differenza tra realtà e illusione.



Era un film lungo - due ore - ottenuto attraverso il montaggio di pellicole perdute e miracolosamente ritrovate, ibernate nel ghiaccio o sotto terra: muti preziosissimi e altri video amatoriali o di cronache d'epoca.



Era un po' come guardare un film di fantasmi per sbirciare, travalicando il tempo, la vita, i volti e la quotidianità di una cittadina intera. Dawson City, che dà il nome al film (Dawson City - Il tempo tra i ghiacci, di  Bill Morrison) era stata la città della febbre dell'oro, nel nord del Canada. 



Una città diventata improvvisamente fiorente e dove arrivavano anche i film; ma rimandarli al produttore sarebbe stato troppo costoso data la sua ubicazione al nord del nord; dunque si finiva per disfarsene, una volta proiettati nelle due sale cinematografiche. Centinaia e centinaia di film sono stati distrutti, per lo più gettandoli nel fiume, o sepolti da qualche parte.



Le pellicole di celluloide, si sa, sono pericolose perché prendono fuoco in modo spontaneo e con grande violenza; un fuoco che non si spegne nemmeno se vengono immerse in acqua: ed è per questa ragione che oltre il settanta per cento dei film muti è andato perduto per sempre.



Il ritrovamento di centinaia di pellicole, perciò, un po' rovinate, ma ancora visionabili, quasi un miracolo di resurrezione, ha dato luogo a un film poetico e molto coinvolgente.

Il cane si chiama Ares e io sarei, diciamo così, la zia (più o meno).
Vederlo è un po' come partire con la macchina del tempo verso luoghi perduti e disperati, dove le donne hanno quei grandi occhi spalancati, resi immensi e profondi dal bistro, e muovano le braccia in quei gesti amplificativi ed enfatici mentre le loro labbra rosse sono disegnate a forma di cuore.



Guardare quelle immagini, ieri sera, e leggere quelle didascalie del film strano che doveva farmi sentire meno strana, non ha che accentuato la mia inquietudine.



Perché mi pareva che il film strano fosse la mia vita con le sue sparizioni inaspettate degli ultimi anni, e che la realtà vera fosse invece quella, inafferrabile, proiettata sullo schermo. 



C'è il sole, stamani, e vado e vengo e mi muovo avanti e indietro tra faccende noiose e altre più piacevoli, facendo di tutto per ritornare, dopo i giorni strani, a essere reale.


sabato 15 aprile 2017

Gli auguri laici

Fiori bolzanini (questa e le successive), inizio aprile 2017
Dovrei cominciare con il parlare di pace, nei giorni in cui respiriamo un'insensata voglia di guerra; e del fatto che con le decine e decine di milioni di dollari spesi per i missili Tomahawk e per quella che con un'orrenda specie di metafora è stata chiamata "madre di tutte le bombe" si risolverebbero per buona parte i problemi di sopravvivenza del mondo.


Mi limiterò, invece, al nostri microcosmi, ai piccoli mondi degli affetti e delle relazioni di ciascuno di noi. Da laici, e poiché si festeggia comunque e tutto ce lo ricorda, la pasqua possiamo considerarla come il simbolo della trasformazione, della rinascita.



Molti hanno paura del cambiamento e così si fanno prigionieri della ripetizione, chiudono da soli la porta della loro cella e gettano lontano le chiavi. Li osservi stupita sprecare la propria vita e vivere per le ore d'aria, per le piccole fughe di carcerati con una divisa invisibile. Sono quelli prigionieri della propria paura, gli eterni bambini sperduti che hanno disimparato da tempo a giocare, ma fingono di farlo, lo sguardo opaco e oltrepassante di chi fugge lo specchio e la parola.



Poi ci sono anche, ci sono ancora, quelli che sorridono alla vita e ne affrontano spavaldi le sorprese brutte e belle, e provano a mostrarsi come sono, accettando il proprio limite. Per non sprecarla, la vita, amandola e amando gli altri con umiltà coraggiosa. Il mio augurio di buona Pasqua, per tutti, è di riuscire a essere tra questi secondi.


domenica 2 aprile 2017

Universi di silenzio e traduzioni possibili (nella giornata sull'autismo).

Questa e le successive foto di bambini sono del grande Erwitt Elliott
Quanti sono gli universi di silenzio? Di silenzio di parole, intendo, oppure nei quali le parole sembrano devitalizzate, usate come sono in modo bizzarro e idiosincratico e perciò inefficaci dal punto di vista comunicativo.


Il termine “infanzia”, tanto per cominciare, fa riferimento etimologicamente all’essere privi di parola.


E poi ci sono tutti gli animali di specie diversa dalla nostra, che emettono suoni, ma non li articolano per formare parole e con le parole frasi e con le farsi discorsi. Eppure noi comprendiamo le sfumature di sentimenti, i desideri e i timori di cani, gatti e altri animali che vivono con noi, così come possiamo comprendere il bambino piccolo nella sua culla che emette solo gorgoglii, ciangottii o vagiti.



Ci sono, ancora, le persone anziane affette da patologie neurologiche degenerative e anche loro perdono la capacità di parlare, in un impressionante viaggio in cui percorrono a ritroso le tappe dell’apprendimento linguistico finché arrivano a balbettare qualche sillaba e poi solo suoni isolati, talvolta prolungati in lamenti.



Ma oggi è la giornata mondiale dedicata alle persone che soffrono di disturbi dello spettro autistico, molte delle quali non accedono alla parola e sono mutaciche o la usano, ma in maniera del tutto soggettiva e dunque inefficace.


Ci sono giornate dedicate a mille cose diverse e ne siamo inflazionati. Però questa è un’occasione particolare per sensibilizzare contro gli stereotipi e i luoghi comuni, dovuti a incolpevole ignoranza, su una patologia che si articola in diverse tipologie differenti per storia individuale e per prognosi ed è importante cercare di parlarne.



Lo faccio con un pensiero soltanto: nel mentre è giusto mettere in atto percorsi di cura, occorre anche chiedersi come fare a comunicare quando le parole risultano inefficaci o secondarie. Quando di esse viene raccolto prevalentemente il significante, cioè le caratteristiche formali e la musicalità e se suonano cacofoniche o eufoniche, ma non il significato a cui sono convenzionalmente legate.


Credo che si debba partire dall’idea che nella relazione con chi non ha o non ha ancora parole, sia importante prestargli le proprie. Non nel senso paternalistico che li renderebbe ancor più dipendenti da chi le possiede, ma proprio come farebbe un traduttore che deve trasporre una poesia - non un saggio, non un romanzo - da una lingua a un’altra.



E’ necessario essere capaci di ascolto attivo per decifrare un codice tanto più complesso delle stringhe di suoni del nostro linguaggio e spogliarci della sicurezza abitudinaria che ci generano i nostri alfabeti verbali. E’ importante, soprattutto, non attribuire all’altro ciò che riguarda noi soltanto. Se non riusciamo a comprendere il suo linguaggio e se lui non sa o non sa ancora usare il nostro, non significa che dentro di sé non alberghi sentimenti, emozioni, affetti di ogni genere; sta a noi cercare di decifrarli per restituirne anche a lui il significato.