lunedì 7 novembre 2016

Ci faccio un crocione 2

Espressione tipica di certi negozianti pisani disturbati nelle loro meditazioni da un cliente che pretende di acquistare qualcosa

Certe volte, in questa città, quando entri in un negozio o in un esercizio, sembra che ti facciano un piacere anche solo ad ascoltarti. 
Non mi piace la gogna mediatica, perciò se racconto qui un episodio di mal-commercio locale che mi irrita, preferisco non indicare nomi e cognomi a meno che non si tratti di qualcosa di illecito nel senso di illegale.

Questo post fa seguito a un altro di alcuni giorni fa, riferito a un commercio di genere diverso, che si può leggere qui. Secondo me è sufficiente denunciare un andazzo, un’abitudine, una tipicità, per scuotere il pensiero troppo acquiescente e adagiato sul così fan tutti e non importa, se non sui siti appositi, specificare identità e indirizzo. 


Ecco: questa è l'immagine che mi viene in mente quando ho a che fare con certi negozianti...
Stasera, per esempio, dovevo stampare una certa cosa a colori su carta speciale e dunque non potevo farlo con la mia stampante. Così sono uscita e avendo trovata chiusa la copisteria abituale mi sono rivolta a un’altra vicina, tutta vetrine, luci e scritte invitanti.



C’erano due uomini davanti a un grande computer che mi sembrava giocassero con una simulazione calcistica e un altro, appollaiato su uno sgabello, che leggeva qualcosa (mi pareva fb) al cellulare. “Un attimo”- mi ha detto - finisco qui e sono da lei". Ma sono passati alcuni minuti prima che mi considerasse come esistente. Ha preso la mia chiavetta e quasi felice di poter tornare presto alla sua attività al cellulare mi ha annunciato che il file non si apriva. Dopo uno scambio di opinioni di cui lui avrebbe fatto volentieri a meno ho capito che poiché ciò che volevo stampare l’avevo elaborato usando un programma per mac, ci voleva un mac anche per aprirlo.


- - Ehhhhh, allora è un lavorone, questo non è un mac! Ha detto l’appollaiato.
- - Ma quello invece – ho risposto io indicando lo schermo al quale stavano giocando (o così mi pareva) gli altri due – lo è!
- - Ehhhhh, no, c’è l’editore (!!!) che lo usa con l’altro, non posso mica interromperli…Torni domani!

martedì 1 novembre 2016

Commuoversi



Al cinema si piange un po’ così, come la protagonista del bel film che ho visto, con le lacrime che scivolano lente rigando le guance e le dita che cercano di asciugarle e non fanno rumore. Era un bel po’ che non mi capitava, come invece mi è successo stasera, quando ormai la storia del film di Ken Loach volgeva, rapida, verso la fine.



Nonostante una mattina pesante, dopo una settimana abbastanza difficile, ero uscita di casa serena, anzi, contenta, per una buona notizia. Ma proprio prima che iniziasse lo spettacolo il bip dell’sms di notizie me ne ha portata un’altra, inaspettata e di segno opposto alla precedente.


Ecco perché mi sono commossa: perché il film parlava anche di me, questa sera, seppure attraverso il punto di vista di persone legate a universi tanto distanti dal mio. Persone ridotte ai margini, a fare i conti con la sopravvivenza, con le scarpe sdrucite, con l’impossibilità di comprare gli assorbenti, con la necessità di dar via per pochi soldi le proprie povere suppellettili e i mobili di una vita. Quanto spesso ci capita di provare amarezza, o dolore, nell’accorgerci che la nostra esistenza, la direzione che può prendere, i colori dei quali può o meno rivestirsi, dipendono troppo dalla decisione di altri?



Ci umilia e ferisce considerare che la nostra serenità è legata alla loro ottusità o alla loro intelligenza, al loro coraggio o al loro essere servili, alla loro sensibilità o alla loro indifferenza. E’ una sempre più rara capacità quella di vedere nell’altro un volto, anziché un numero di una serie; cioè una persona: preziosa, irripetibile, unica.