martedì 31 gennaio 2017

Horror?


Mi disturba sentire definire Shining un horror, come invece si fa di solito riconducendo a questa categoria un film che mette in scena la rappresentazione dei nostri peggiori incubi. L’orrore è relativo, infatti, a qualcosa di alieno e cattivo che si insinua subdolamente nella quotidianità buona, ma Shining, che ho rivisto al cinema ieri sera, è l'esatto opposto poiché è un film su quello che Freud aveva denominato “il perturbante”. Cioè  sulla paura più profonda che possiamo provare e che è relativa a ciò che ci è familiare quando improvvisamente acquista una luce sinistra e ne vediamo un volto fino ad allora nascosto. E' lo stesso Kubrick a dichiarare di avere preso a ispirazione il breve saggio di Freud del 1919 e il film sembra infatti realizzarne una vera e propria traduzione multimediale.


Il tema del doppio, della paura del proprio sosia o replicante, centrale nel saggio di Freud, è incarnato dalle sinistre gemelle ma anche dall'amico immaginario, Tony, e dall'identificazione improbabile in una stessa persona del protagonista dell'oggi e di Grady, l'assassino del passato che rivive in lui. E ancora: la confusione tra animato e inanimato propria dei disturbi psichici gravi e infine lo shining, la "luccicanza", ovvero la conoscenza empatica o se vogliamo telepatica, sono entrambi elementi presenti nel saggio di Freud. 

Freud e la cagnolina Jofi

Ecco che si spiega il costante tradimento dei cliché del genere horror a partire dal fatto che l'incubo si realizza di giorno, in piena luce e la salvezza di notte, e che i personaggi del male sono gli stessi che incarnano il bene. La famiglia, gli affetti più intimi, possono rappresentare il pericolo più angoscioso, e non possiamo essere certi di niente, di nessun legame contrabbandato come sacro. Perturbanti sono i segreti della camera dei genitori, perturbante è la smorfia di disgusto, di odio o di rabbia nel volto di chi credevamo ci amasse mentre ci guarda con occhi sconosciuti e dalla sua bocca escono parole che mai ci saremmo aspettati.



Perturbante è il tradimento della fiducia riposta in qualcuno, la sua menzogna, la scoperta inquietante del Jekyll che si nasconde dietro un qualsiasi Hyde nostro amico, genitore, figlio, marito, amante, fratello.



Kubrick ha spesso affermato che è un errore tradurre un film in concetti mentre lo si guarda e che bisogna, invece, sentirlo. Riguardando Shining mi è sembrato di capire meglio come mettesse in atto questa sua convinzione nelle scelte di regia.



Lo si vede, per esempio, dall'uso e dalla scelta della musica. Shining non sarebbe Shining senza la sua colonna sonora particolare: il tema del Dies irae iniziale, che commenta l’inerpicarsi della microscopica macchina con il suo insignificante carico umano su per paesaggi aspri e gelidi; e poi e soprattutto Bartòk, Penderecki, ma anche l’amato Ligeti. Musiche ritmate, incalzanti, ossessive, legate ai timbri bassi che vibrano nel profondo delle viscere e corrispondono ai primi suoni che pronunciamo, quelli gutturali. Il labirinto, del resto, è il luogo reale e metaforico presente in tutto il film e riconduce anch'esso alle viscere e alla loro profondità sconosciuta.


Ho rivisto il film in versione originale con i sottotitoli e la voce del protagonista si è rivelata una sorpresa, benché il doppiaggio di Giannini, nel film in italiano, sia esemplare. Ma la voce di Nicholson, mentre nel buio della sala me ne lascio avvolgere incantata, mi pare attaccata alla sua pelle, a quel suo volto che diventa demoniaco, a quella sua lingua che si muove tra i denti in una bocca che allude continuamente alla possibilità di mangiare la carne della sua carne come nei miti antichi, come Crono con i suoi figli.


Cannibalismo e amore sono ibridati nell’incapacità degli assassini seriali di travalicarne l'aspetto letterale,  di farne metafora di impossessamento. Sì, Jekyll e Hyde: è la solita vecchia storia del bene e del male e dell’incapacità di tollerare che un po’ dialoghino, che un po’ si mescolino rendendoci umani, cioè limitati e imperfetti. E' quel volersi mostrare puri e altruisti a tutto tondo, eroici nella propria generosità spinta all’inverosimile, incapaci di palesare una critica, un momento di intolleranza verso le ingerenze dell’altro che fa sì che alla fine tutte le tensioni aggressive represse esplodano all’improvviso.

Ecco che una maschera orrifica prende il posto del volto amato, ecco che un ghigno si sostituisce al sorriso consueto che ci accoglieva quando entravamo in una stanza o che ci consolava quando avevamo una preoccupazione. Ecco lo sguardo che si fa torbido, gli occhi iniettati di sangue, la voce che si fa viscerale e bassa, oppure che si deforma in un falsetto grottesco, artificioso e spaventevole.


Tutto è congelato, alla fine, immobile e al confine tra la vita e la morte come nella favola della bella addormentata; e come accade quando non riusciamo più a viaggiare dentro di noi e a contattare i nostri desideri, accettando la complessità contraddittoria dei sentimenti che proviamo.



martedì 3 gennaio 2017

Bésame mucho (o della magia)

Certe volte ho pudore a raccontare di certe casualità che mi capitano e che non sembrano tali, cioè coincidenze legate al caso, ma, anzi, mi sollecitano a credere nel pensiero magico. Sono un tipo abbastanza razionale, controllo le notizie in rete e quasi mai mi è capitato di condividere una bufala; non credo nelle scie chimiche e non mi piacciono le teorie complottiste.



Però, a volte, mi lascio andare al senso di magia degli eventi che capitano perché sento che se in quel momento il cuore è un po' preda della malinconia è un modo per scaldarlo. 

Hughes Edward Robert, Midsummer Eve, 1908
Il fatto è semplice. Oggi sarebbe stato il compleanno di mio padre; il primo compleanno senza di lui, cioè il primo che non festeggiamo. Ieri sera ci riflettevo e chiudendo gli occhi mi sono imposta come proposito per il giorno dopo, cioè per oggi, di alzarmi e vivere la giornata senza pensarci, per non diventare troppo triste.


Sempre prima di dormire, però, mi sono venute a visitare delle immagini e poi sono arrivati dei suoni, mentre ero in quella fase del dormiveglia che è difficile controllare. Come spesso succede con i suoni, se non con le immagini, quelli della sera ce li avevo in testa al risveglio e canticchiavo, dunque, "Bésame mucho". E' una canzone, tra altre, che mio padre suonava con la fisarmonica, che i miei fratelli scherzosamente accompagnavano con i loro strumenti più tradizionali e che io cantavo quando si faceva baldoria e musica a casa sua per una qualche ricorrenza. Questa gli piaceva molto; anche a me è sempre piaciuta e in fondo al post inserisco la versione originale, cantata dall'autrice, Consuelo Velasquez.




L'aveva composta nel 1940 e doveva essere il sogno di un bacio se è vero, come aveva dichiarato, che all'epoca in cui l'aveva scritta di baci veri e profondi non ne aveva scambiati ancora. Sono uscita e malgrado il mio proposito di pensare ad altro ho cominciato a canticchiarla sottovoce e poi con la mente. Arrivata in Corso Italia - e sembra incredibile persino a me, che ho pudore, ripeto, a raccontarlo - un uomo suonava Bésame mucho; e la suonava anche bene, o così  mi è parso. La suonava proprio con la fisarmonica, come se da tutta la vita non avesse fatto altro.


L'hanno interpretata anche loro. 

Poco dopo, pranzando con una mia amica, le ho confidato la piccola storia di un compleanno mancato e del dono inaspettato di una musica. Dato che non si è per nulla scomposta, anzi, la storia le è piaciuta, mi è venuta anche voglia di scriverla e parteciparla. Perché, sì, sarà stato di certo un caso, ma a me piace di più pensare che sia stata una magia.



lunedì 2 gennaio 2017

Poesia, ma anche amore

Paterson, di Jim Jarmusch

Lo fanno entrambi. Entrambi colorano la vita, lui con le parole nel suo taccuino e lei con i suoi pennelli, dipingendo tende, suppellettili, vestiti e cibo con infiniti e giocosi disegni in bianco e nero.


La notte dormono abbracciati disegnando nel letto quelle geometrie che formano le coppie affiatate che si stringono nel sonno; forme tipo un cuore o una doppia esse.



I giorni che sembrano uguali sono sempre diversi perché diverse sono le parole di lui, diverse le pennellate di lei. La sera si raccontano o mostrano ciò che ciascuno ha creato di magico durante il giorno, isolato nel proprio mondo di faccende routinarie.



Leggimi la tua poesia di oggi. Guarda come ho dipinto le tende o la chitarra mentre tu non c'eri.


E poi c'è anche il cane Marvin, che meriterebbe un discorso a parte; strano e imperscrutabile testimone un po' dispettoso di mattine in cui i gesti sono i soliti, uguali nei giorni di lavoro e diversi nei giorni di festa, ma ricalcabili su quelli degli altri giorni di festa.


La tazza della colazione e il suo contenuto, il boccale di birra la sera, la strada per andare al lavoro e rientrare a casa di giorno, e poi quella della passeggiata notturna del cane e il pub: sempre gli stessi oggetti, sempre gli stessi percorsi, ponti, volte, marciapiedi e finestre e così le inquadrature che ce li mostrano; ma a ben guardare ogni volta c'è un dettaglio, un particolare nuovo e diverso.



Le parole di lui nascono dalla capacità di vedere gli oggetti di tutti giorni come se fossero magici, come se nascondessero un potere segreto. Le pennellate di lei servono a rendere "più interessante" - l'espressione è proprio della protagonista - la piccola casa dalla porta colorata di un rosa improbabile.



Saper vedere l'invisibile nascosto dietro l'apparente banalità è ciò che rende l'uomo e la donna protagonisti del film differenti e uguali: non soci, ma compagni e complici, capaci di amare proprio la diversità dell'uno o dell'altra. Ma anche capaci di ascoltarsi, di leggere dietro i comportamenti consueti, attraverso l'impercettibile gesto, il guizzo veloce dello sguardo, la piccola piega della bocca in su o in giù, i sentimenti profondi che non sempre si ha la voglia o la speranza necessarie per dire con le labbra. Empatia: un'esperienza psichica paradossale e veloce di conoscenza dell'inconoscibile, cioè del mondo interno  dell'altro, di ciò che non si vede e che appartiene a lui solo, giardino segreto di desideri e ricordi tra i più intimi. E' l'ingrediente principale di ogni relazione non egoista. Per questo credo di avere visto, ieri sera, un bel film sulla poesia, ma non solo.



Ho visto un bel film sull'amore, nell'epoca in cui di amare non si è quasi più capaci; sull'amore non come annullamento di sé nell'altro, ma come rispetto e curiosità delle differenze che la notte, nel sonno condiviso, trascorrono da corpo a corpo a suggello di ciò che si è detto con le labbra, guardandosi, ridendo insieme, incoraggiando ciascuno il bisogno di poesia dell'altro. Le palpebre sono abbassate, nel sonno, anche quelle di chi dorme nell'abbraccio di chi ama, ma c'è il profumo della sua pelle a testimoniare la perduranza di una presenza. L'amore altro non è se non la capacità di non annoiarsi mai di chi si ama e conosce, sapendo leggere le sue trasformazioni, anche impercettibili, nel tempo, con curiosità e tenerezza.



E' un bene raro, l'amore, come la poesia, eppure capita anche, se abbiamo la fortuna di incontrarlo, di gettarlo via inconsapevoli. Ma il film ci dice, nel finale che non svelo, che esiste sempre almeno una seconda possibilità di aprire una nuova pagina bianca e riempirla dei segni neri che trasfigurano la banalità in poesia.