domenica 30 marzo 2014

Il freddo a teatro e il filo della memoria


Teatro Rossi - Pisa

C'era molto freddo al Teatro Rossi Aperto di Pisa, ieri sera, ma lo sapevamo. Io avevo anche rotto la cerniera del piumino e a un certo punto dovevo stare un po' piegata su me stessa per avvertirlo meno. Però tutti siamo rimasti lì, fermi e in silenzio, ad ascoltare sbigottiti ciò che già sapevano come se lo scoprissimo per la prima volta. E’ stata una bella idea condividere in teatro quelle letture dal libro di Serena Dandini sul femminicidio e anche affidarle a donne della nostra città e non ad attrici professioniste. 

Duy Huynh, Donna trafitta
Ero seduta in fondo e nella penombra non le ho riconosciute proprio tutte, ma per quel che ho visto, e a volte aiutata dal timbro o dall'inflessione, mi sembravano figure familiari. Nel buio della sala, poi, ho intravisto tra gli spettatori alcune amiche (e compartecipi di tante lotte) delle quali non avevo più saputo niente da anni. Perché per tutte ci sono stati i figli o il lavoro in un’altra città o qualche altro accidente di percorso che ha fatto sì che ci si perdesse. Avrei voluto salutarle, chiedere e raccontare, ma c'era troppa gente e non ci sono riuscita.
Molte di quelle che leggevano erano – sono - le stesse che negli anni hanno portato avanti anche in questa città tante battaglie, a volte in prima fila, a volte più indirettamente. E poi c’erano le più giovani, anche in platea, e tra loro diverse mie studentesse o ex studentesse.

Chi ha scattato la foto trovava poetico usare il bianco e nero.
Allora fumavo e poi non andavo dal parrucchiere, per principio,
che una volta all'anno; per i restanti mesi
mi tagliavo da sola i capelli (si vede).
E’ bello pensare che c’è un filo rosso, sia pure, a volte, invisibile, che collega nel tempo le donne di questa città. Bello soprattutto perché qualche volta si ha l’impressione che siamo noi le prime nemiche di noi stesse: impietose, critiche e pronte a fare nostra l'interpretazione peggiore del comportamento dell'altra e a saltarci addosso per un nonnulla nei luoghi di lavoro e nei nostri microcosmi affettivi.

Tamara De Lempicka, Ragazze, 1928
Anche tra donne sarebbe bello praticare la direzione ostinata e contraria rispetto a quella che abbiamo sempre visto mettere in scena; e ieri sera, infatti, così è stato. 
Ah, dimenticavo: a me è sembrato bello che leggessero anche alcuni uomini.

Duy Huynh, Circus Romance
Credo sia giusto distinguere tra quelli che perseguono solo la propria egoistica sicurezza legata al bisogno di controllo e quelli che invece sanno renderci un po' o molto felici e prenderci per mano e farsi prendere per mano per cercare insieme un modo nuovo e diverso di intrecciare le nostre esistenze. Non sono la maggioranza di loro, lo so. E appunto per questo: riconosciamoglielo!

Duy Huynh, Twilight dancers

sabato 29 marzo 2014

Il silenzio degli universi perdenti


Questa e le successive immagini sono tratte 
da "Il nastro bianco" di Michael Haneke
Ho scritto qualche giorno fa alcuni pensieri in merito alla vicenda del bambino di Massa picchiato a sangue dalla madre a scopo educativo. I bambini non sono una proprietà dei genitori e le botte non hanno mai educato nessuno se non alla paura e alla menzogna. Mi è venuto in mente, al proposito, un film molto bello sull’argomento, “Il nastro bianco” di  Michael Haneke. Trascrivo le considerazioni che tre anni fa, quando l’ho visto, mi aveva suscitato, consigliando di cercarlo. Cosa che farò anch'io (non so quando) per rivederlo.


23 gennaio 2010
Sono convinta che sia possibile parlare di politica anche indirettamente ed è quello che vorrei fare in questo caso. 
Il sole caldo di stamani, senza nuvole in agguato e compromessi con il grigio, rende più difficile commentare il bellissimo film che ho visto ieri sera. A quel film, infatti, si addice la notte piena di ombre e sussurri o di paure trattenute nelle pieghe più segrete dell’anima. Molti spettatori ne sono usciti con la faccia delusa e rancorosa; al termine ho anche scambiato qualche commento con amici incontrati per caso, ma non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Forse bisognerebbe raccomandare, nelle brevi recensioni critiche di un film, di sceglierlo in base ai propri sentimenti del momento.



A questo film, per esempio, si confanno il silenzio di parole e la tristezza e io, ieri sera, ero da sola ed ero triste; questa coincidenza, forse, mi ha reso quasi naturale rompere la barriera invisibile che sempre si erge tra lo spettatore e lo spettacolo, per entrare dentro la storia, nel 1913, cioè alla vigilia della prima guerra mondiale, in un piccolo paese del nord della Germania; e per vestirmi anch’io di quegli abiti scuri, punitivi e larghi avvolti su corpi bambini o sulla magrezza esasperata e goffa di quelli adolescenti.



Così ho camminato, anch’io, con i loro piccoli passi incerti e timorosi, prendendo da un ripostiglio buio la ferula con la quale essere brutalmente frustata per una marachella da niente, per una parola di troppo, per uno sguardo impudente. E con loro ho subito, sequenza dopo sequenza, la crudeltà di un amore genitoriale malato e ho sgranato gli occhi pieni di domande sul perché dell’esistenza senza riceverne alcuna risposta; da nessuno.



Bianco e nero, come nel migliori film di Ingmar Bergman, e paesaggi innevati e solitari, bellissimi e gelidi, cornice impietosa delle miserie umane, dei segreti indicibili fatti di violenza riposta tra le pareti discrete della casa, dietro le porte chiuse, tra le trine candide e leggere cucite attorno alle cune e al loro prezioso tesoro di piccoli bambini prigionieri delle proprie fasce; e mobili pesanti, imponenti e scuri, indizio ingannevole di sicurezza e di solidità degli affetti.



I merletti delle donne compaiono spesso nel film e la telecamera si sofferma su di loro e li evidenzia, o su mani ancora bambine che li tessono con la testa china sul petto, e altre ne lascia immaginare, di fanciulle e di donne che scrivono la propria rabbia su pagine di stoffa o di pizzo, con il filo e l’ago, con l’uncinetto o il chiacchierino o il tombolo, lasciando uscire dalle dita la propria silenziosa e vana protesta, la voce di un universo femminile perdente al quale neanche il lamento è più concesso, ma solo la muta rassegnazione.



Il film, infatti, ci accompagna per mano all’interno degli universi perdenti di chi non ha parola: i bambini, i disabili (c’è un personaggio dismorfico e balbettante in un proprio gergo incomprensibile che quasi sempre viene chiamato dal narratore fuori campo “il bambino ritardato”) e le donne prima che diventino troppo adulte e quindi si facciano complici dei propri aguzzini nella sopraffazione di altri più deboli; in questo caso i figli.



Lo sguardo impietoso del regista si sofferma sulla genesi delle future figure di nazisti mentre ancora essi stessi sono vittime di un’educazione improntata alla gerarchia e all’obbedienza assoluta che lega anche i genitori, carnefici e vittime insieme; consenzienti; complici della figura del Barone, signore del luogo che arriva a sostituirsi persino al prete per rivolgere un sermone-minaccia agli attoniti fedeli raccolti per la funzione domenicale.



Il Barone, il Pastore, il Medico e l’Intendente determinano le regole di convivenza di una comunità chiusa e gerarchica che finisce per diventare - e noi spettatori lo pensiamo senza avere il coraggio di dircelo - la spietata rappresentazione di qualcosa di più universale della gestazione dell’esperienza nazista; qualcosa  che in qualche oscuro modo ancora ci riguarda.
 



martedì 25 marzo 2014

Io, me e la politica


Emmeline Pankhurst 
La riflessione nasce da un pretesto di per sé piccolo fino all’insignificanza, ma si allarga al senso del mio distacco attuale dalla politica così come è diventata. Ecco il pretesto piccolo. Qualche giorno fa ho letto sulla bacheca di facebook di una persona che stimo una notizia che so non essere del tutto vera; cioè  non essere così come viene presentata. E' una notizia trasfigurata fino a stravolgerne la natura e il senso, con dettagli assolutamente di fantasia e con forzature create attraverso giochi verbali. Si sa: basta cambiare o togliere una preposizione, omettere una virgola, sostituire un segno qualsiasi di punteggiatura e il senso di una frase può rovesciarsi completamente.



Chi ha condiviso la notizia l’ha fatto in buona fede, per fiducia, direi, nei confronti di altri che l’hanno fatta girare prima. L’avrei sottoscritta anch’io, probabilmente, magari l'avrei anche commentata aggiungendo a quella altrui la mia indignazione, come ha fatto un mio caro amico, se per puro caso non fossi stata a conoscenza dei fatti. Volevo commentarla a mia volta per ristabilire la verità, ma non l’ho fatto. In seconda istanza volevo scrivere o telefonare a chi l’aveva postata e a chi l'aveva commentata, ma non ho fatto neanche questo. Perché?



Perché sono scoraggiata e non credo più alla politica fatta di scambi verbali, che non richieda una presa di coscienza profonda di quanto tutti siamo stati inquinati da tanti anni di berlusconismo dell’anima. Guardo indietro e mi rivedo giovane studentessa e poi ancora, dopo, a lottare per qualcosa che i più non comprendevano. Mi rivedo, come se quella fosse un'altra me, attraversare le strade di questa città in corteo e in mezzo agli sguardi distanti dei passanti.



Non contenta delle molte manifestazioni locali andavo anche fuori: a Roma, a Milano, a Bologna e a Trento e in tante altre città, sempre in corteo, sempre con la mia povera speranza di cambiamento incompresa. Con gli anni ho cominciato ad accorgermi che alcuni meccanismi della politica che giudicavo meschini erano in parte trasversali a destra e sinistra. Per esempio la pratica della doppia verità: una per la gran parte delle persone, coinvolte solo per emotività  o per fede, e una per un gruppo più ristretto di dirigenti e intellettuali (che a volte coincidevano). Questa doppia verità la ritrovavo leggendo le cronache all’indietro, a prima che potessi averne testimonianza diretta. Quando, per esempio, c’era stato l’attentato a Togliatti e subito era accorsa vicino a lui la sua compagna, Nilde Iotti, si cantava nella ballata composta a uso popolare che quella donna era invece la moglie legittima e la si citava con tanto di nome: Rita Montagnana.



La coppia Togliatti-Iotti era legittimata a livello di dirigenza e funzionava come qualsiasi coppia anche se non c'era stato matrimonio, con inviti ricambiati eccetera, ma al popolo si raccontava qualcosa di diverso. Proprio così come si deve fare, canta il coro del Rigoletto, coi fanciulli e coi dementi.



Provo sempre dispiacere per le bugie montate ad arte, per la non verifica delle notizie attraverso la lettura diretta di fonti e documenti. Il dispiacere si fa più grande se tali notizie riguardano più o meno direttamente la sfera politica, se la  montatura serve per autopropaganda, pensando che il fine giustifichi i mezzi, e se è opera di qualche esponente politico che si situa nell’area che cerchiamo di chiamare “sinistra” e nella quale, più o meno, ancora mi riconosco. Siamo tornati a prima di Galileo, almeno in politica.




Siamo tornati al fare leva con spregiudicatezza e insopportabile calcolo del consenso sulle corde più sensibili e delicate delle persone per accattivarsi la loro fiducia dal punto di vista emotivo. Mi guardo ancora all'indietro, come se fossi un'altra me, mentre pago il prezzo della bocciatura politica al liceo, per quelle mie lotte, o mentre rimando un esame perché c'è un'emergenza politica alla quale fare fronte. Mi guardo rinunciare a certi percorsi per ideologia esasperata, per rifiuto estremo, legato all'età giovanile, di ogni compromesso, per incapacità, ancora abbastanza resistente, di mentire. Se tornassi indietro lo rifarei? Me lo chiedo spesso e non riesco a non rispondere che sì, lo rifarei. Oggi, quando mi attivo per qualcosa in cui credo, pago un prezzo diverso e cioè il forte sentimento di solitudine che a volte mi attanaglia lo stomaco. Poi passa, per fortuna. E ricomincio ad avere anche un po' di fiducia nella parola, che, forse, può servire anche a capirsi. 
Tina Modotti - Una delle tante inascoltate

Quando mi prende male ripenso qualche donna coraggiosa di cui conosco la storia e leggo qualcosa che la riguarda. Come questa poesia di Pablo Neruda a Tina Modotti, morta in circostanze oscure, sola, nella notte, nel freddo abitacolo di un taxi. 

TINA MODOTTI E' MORTA di Pablo Neruda

Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:
forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l'ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.

La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:
ti sei messa una nuova veste di semente profonda
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.

Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d'acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
la tua delicata struttura.

Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l'anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.

Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non arrivi l'assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai tranquilla.

Non odi un passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grande dalla steppa, dal Don, dalle terre del freddo?
Non odi un passo fermo di soldato nella neve?
Sorella, sono i tuoi passi.

Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d'una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.

Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.

Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall'acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco.