Alfred Emile Léopold Stevens, Ritratto della signora Hove, 1900 |
Ci ripenso ancora. E’ sbucato all’improvviso
in mezzo alla strada, un po’ tremolante sulla sua bici dalle ruote grandi, i capelli canuti sotto il berretto di foggia giovanile, le mani nodose strette su un
manubrio troppo largo. Per schivarlo ho sterzato di botto, rischiando di
investire una donna che si trovava su un’isoletta pedonale, ma ce l’ho fatta.
Lui non si è accorto di niente. Perché mi sono fermata a guardarlo
allontanarsi, con il suo sorriso appena accennato, con la sua polo a
righe orizzontali di scalature di grigio e azzurro carta da zucchero, proprio
come si usava un tempo. Le portava mio nonno quelle polo lì; ma io pensavo, intanto, a mio padre quando va in bici, d’estate, in mezzo al traffico di Marina
di Cecina. Pensavo a come tutto può essere effimero, inaffidabile, trasmutarsi
in un soffio di vento.
Così, assorta com’ero in questo filosofeggiare d'accatto, non mi sono accorta del
portabagagli alto sul sedile di dietro della moto parcheggiata fuori dalle
misure e l’ho urtato. C’è stato un rumore esagerato rispetto all’entità della
cosa: era solo un pezzo del mio specchietto che cadeva. Dunque di nuovo mi sono
spaventata e colta di sorpresa da quel forte rumore, lì per lì, non ho
capito cosa fosse successo. Ho frenato e sono scesa temendo di avere investito
un gattino o non so cosa; temendo, cioè, di riattraversare un’esperienza già
vissuta che improvvisamente si è fatta attuale come fosse stato ieri. Viale di Marina di Pisa,
crepuscolo estivo di molti anni fa, quasi le 21 e canticchio da sola insieme
con la radio quando un micio mi attraversa la strada all’improvviso.
Rivedo me
che scendo, che lo raccolgo. Rivedo me che mi guardo le mani e le sue budella
che le arrossano di sangue. Rivedo me mentre prendo un telo dal portabagagli e
cerco goffamente di avvolgerlo, di ridargli vita con il calore. Vorrei andare da un veterinario, ma rivedo me che
lo appoggio con le mani tremanti, perché è morto e non solo straziato, sul ciglio verde della
strada. Rivedo me che con le guance rigate dalle lacrime mi guardo intorno
cercando una casa, qualcuno da avvisare. Ma non ci sono case, in quel punto,
non passa nessuno.
Rivedo me che continuo a singhiozzare mentre scivolo via,
sul nastro grigio della strada, lontana da quel gattino sconosciuto che
qualcuno avrebbe cercato invano, la notte.
Ho raccolto il pezzo dello
specchietto da terra, l’ho riaggiustato alla meglio, sono ripartita. Guidavo e pensavo
al signore anziano che mi ricordava mio padre, allo specchietto rotto, al
padrone della moto parcheggiata male - accidenti a lui - al gattino morto di
morte antica sulla strada di una mia precedente esistenza di tanti anni fa e, insomma, ai casi della
vita.
Pensavo all’imprevedibile, all’inaffidabilità delle proprie percezioni,
al mio ritardo accumulato per un sacco di faccende complicate, a cose piccole e
a cose grandi come il significato delle esperienze e della vita e così mi sono
infilata, controsenso, in una strada che più familiare non ce n’è, per me. Dicono
che gli incidenti siano più facili nei luoghi che si conoscono bene, perché l’attenzione
si allenta e perché, stupidi che siamo, ci si fida di più e si pensa di
conoscere e capire tutto.
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