Innocenza e colpevolezza sono condizioni sulle quali ci interroghiamo
tutti i giorni in riferimento alla nostra piccola quotidianità, a un figlio o a
un genitore che ci sembra, a volte, di avere deluso o a un amore finito. Anche
la punizione e la rabbia che la determina sono esperienze con le quali ci
troviamo costantemente a fare i conti. Il desiderio di fuggire accomuna chi è
rinchiuso in un carcere fatto di sbarre e cancelli e chi se ne costruisce da solo di
altrettanto pesanti, sebbene invisibili.
Il
tempo, in carcere, è definito dalla discontinuità che è infatti la misura dei
luoghi estremi. C’è la lentezza esasperante della sospensione di libertà,
dunque dell’assenza di imprevisti, di stupore, di cambiamento, ma con
improvvise accelerazioni angoscianti come quando il cuore si mette a battere
all’impazzata. Il tempo, in carcere, deve essere lo stesso eterno presente
della follia, l’attimo dilatato all’infinito, legato al ripetersi di stereotipie
gestuali o mimiche e all’incessante dondolamento del busto su se stesso. Ed è proprio il
carcere la cornice del film che ho visto. Un film che parla anche di
sogni infranti e di ideali traditi.
Non
ero di umore malinconico, stasera, eppure mi sono emozionata molto e in certi
momenti le lacrime mi rigavano inarrestabili le guance. Mi vergognavo all’idea
di essere vista, ma asciugarle sarebbe stato peggio e quindi mi sono lasciata
andare; e ho continuato anche dopo, camminando da sola per una via San Martino
deserta e tiepida, piena di profumi primaverili.
Saranno state le scene
iniziali, già così belle, in quel loro essere indefinite e imprecise, quasi mosse e cangianti come un
sogno del primo mattino carico di presagi belli o brutti per il giorno che sta
per sorgere. Sarà stato il suono del violoncello, protagonista quasi assoluto
della colonna sonora, composta da Shigeru
Umebayashi che è autore anche di quelle di altri film che ho amato. Oppure il personaggio di lei, che per certi tratti, per come è stata rappresentata,
ho sentito in più momenti vicina al mio modo di essere.
Sarà stata l’innocenza fedele dei suoi cani e il suo modo di abbracciarli, di sussurrare loro parole un po’ sciocche; o il loro sguardo consapevole e profondo di fronte al dolore. Sarà stato anche il fatto che a un certo punto, quando lei chiede a un amico che cosa sia per lui l’amore, lui risponde che l’amore è una speranza e a me è sembrata una definizione bella e coraggiosa di fronte ai troppi, e razionalmente condivisibili e perciò scontati e banali “non si può dire cos’è l’amore”. Non troverà più l'amore, lei, o comunque ne è convinta; e questo spiega tutto, cioè il finale del film, uguale alla fine della storia vera che racconta. Ma io, invece, vorrei fare mia quella definizione dell’amore aggiungendo qualcos’altro. Vorrei dire, ecco, che forse l’amore, per ciò che possiamo afferrarne, è una speranza resa viva e palpitante dal coraggio.
Il
film è “Come il vento”, di Marco Simon Puccioni; è uscito a Novembre e, leggo,
è stato proiettato in pochissime sale.
Film intenso,emozionante....come il tuo commento che condivido totalmente!
RispondiEliminaNon è poi così importante sapere cosa sia l'amore, riuscire a definirlo. Molto più bello riuscire a viverlo, a goderlo. E, a proposito di godimenti, stasera mi son goduto un film dolce-amaro on-the-road, sulla vecchiaia e sui sentimenti padre-figlio. In un bianco e nero un po' sgranato e molto coinvolgente. Nebraska.
RispondiEliminaUn film molto bello, è vero. L'ho visto un po' di tempo fa e mi è rimasta per giorni, addosso, un'impressione profonda di dolcezza.
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