sabato 2 gennaio 2016

Panni stesi. (Amare per scelta).


Yasujirō Ozu
Avevo provato, senza riuscirvi, a guardarlo in streaming. Poi è stato proiettato nel cinema in cui sono praticamente di casa, ma ero fuori Pisa. Mi ero rassegnata a non vederlo. Parlo di “Viaggio a Tokio”, di Yasujirō Ozu. Ora, però, ho avuto in dono i suoi film restaurati e ieri sera, sdraiata sul divano insieme alla gatta Blu, ci sono riuscita.

Tipico stretching della gatta Blu prima di accoccolarsi
su di me per guardare i film al computer.
Il gatto Ulisse, invece, non ama i film.
Mi sono emozionata molto, cioè commossa e arrabbiata varie volte. Non solo per la storia e perché mi ricordava un po’ uno dei romanzi dello scrittore che più ho amato, Le Père Goriot di Balzac, ma anche per la potenza delle immagini.



Le luci e l'ombra sono esaltate, non so in virtù di quale magia tecnica, e ci si sente come ipnotizzati, soprattutto per certi controluce con le persone riprese di spalle.




Perché è così, attraverso la postura, il corpo, il lento posarsi degli occhi e la danza delle mani, che capisci che nessuno può aiutarle, quelle persone di spalle - e nemmeno tu - a sopportare la delusione dolorosa di un viaggio a lungo sognato, nel quale la meta finisce per essere il disincanto.




Battelli che scivolano sul fiume, treni che passano lenti con il loro carico e tra una scena e l’altra l’intercalare di panni stesi al sole.


Bianchi, seriali, sono come un sipario che genera l’articolazione del film nelle sue varie cornici di esistenza e di non comunicazione scandendo la distanza tra la rumorosa, troppo vasta metropoli e il piccolo paese dai tetti in discesa.


A un certo punto ho alzato il volume. Chissà poi perché, dato che il film è in giapponese e si segue attraverso le didascalie. Eppure mi è sembrato naturale. Ero colpita dalla prosodia senza capire bene il motivo. Tutto quell’alzarsi e abbassarsi del tono e quell’allungarsi o abbreviarsi dell’accentazione sembrano andare di pari passo con il contrasto chiaro/scuro così accentuato che caratterizza le immagini e con il continuo contrappunto tra la quiete della stasi e il movimento, lo scorrere quasi meccanico che vi si oppone.


Il movimento è affidato alle barche che scivolano controcorrente sul fiume e al treno che fende gli alberi, all'inizio e al termine del film. Il movimento è anche quello rapido e nervoso dei ventagli, perpetuamente agitati davanti al proprio corpo immobile come si deve, ripiegato - seduto - sui propri stessi piedi quasi a bloccarne il movimento.


Le sfumature non sono nei gesti, in quell’inchinarsi anche quando si nutrono sentimenti spiacevoli, nel sorriso che accompagna qualsiasi tipo di messaggio verbale; ma nella musicalità del parlare e nelle immagini contrastive e quasi violente; che accecano allo stesso modo per il troppo bagliore come per lo scuro.


Amare senza pretendere la ricevuta, senza garanzia. Amare cercando di capire anche la fragilità dell'altro, i suoi difetti, le sue ombre. Bisogna essere molto forti, per riuscirci. Amare, però, chi ci sa ricambiare e dunque non per obbligo, non perché ci è imposto dalla consuetudine o da un legame di sangue, ma per scelta.


Amare chi ci ama. Imparare a fermarsi, a sostare, di tanto in tanto, per poterlo fare, cioè per ri-amare.


La quiete permette di sognare se stessi e gli altri; il movimento, invece, l'affaccendarsi zelante, a volte ce lo rende impossibile. 

La rappresentazione del movimento, nel film, è affidata alle barche o al treno e lo ridico perché è un aspetto che si imprime nella mente, che colpisce molto. In entrambi i casi si tratta di strade prefissate rigidamente: la barca non può che viaggiare lungo la linea del fiume, il treno è prigioniero dei binari. 
L'orologio fuori moda che nella scena finale del film Noriko stringe tra le mani mentre è seduta, da sola, sul treno che la riporterà alla sua piccola casa vuota, è il dono più prezioso che si possa ricevere: il tempo e la sua infinita tessitura degli affetti.

Nel nostro vagabondare, a volte ripercorrendo gli stessi passi, non ci accorgiamo che spesso stiamo solo tracciando le spirali di errori passati, come fossimo prigionieri di un copione invisibile.



I due protagonisti principali non passeggiano davvero; e nemmeno viaggiano davvero; non partono da nessuna casa familiare e non arrivano in nessun luogo caldo di affetti. Loro vagabondano, come a volte capita a chiunque, sognando la porta che si apre, il tepore del sakè condiviso e non più l'inchino formale, l'abitudine millenaria del reprimere l'espressione drammatica dei sentimenti, del non mostrare le emozioni, soprattutto quelle negative.


La scena più tenera del film è quella in cui le mani di Noriko si fanno di carne e lei massaggia dolcemente la schiena della suocera.


E' in questa parte del corpo, vulnerabile, non soggetta al controllo della nostra vista, che sentiamo il bisogno di essere protetti e per questo desideriamo, in tutte le età della nostra vita, che qualcuno ci avvolga tra le sue braccia. 



1 commento:

  1. Forse sarà di un qualche aiuto per qualcuno sapere che questo come altri mirabili film di Ozu sono visibili con modesta cifra di abbonamento su Mymovies Live (http://www.mymovies.it/live/film/)

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