mercoledì 25 settembre 2013

Hugo Cabret
















H


Hugo Cabret di Scorsese: tenero, commovente e struggente questo film sul tempo che rapisce immagini e suoni e  ti sembra di non ricordare più una voce, il rumore di un passo familiare nel corridoio di là dalla camera dove rincorri il tuo sonno bambino o il calore e il profumo di un abbraccio lontano. 
All’improvviso, però, possiamo ritrovare intatto il passato anche senza bisogno di evocarlo attivamente. Anzi, è il passato stesso che ci trova e ci viene incontro, in un odore che ci possiede all'improvviso, in una sensazione già vissuta che di nuovo si fa attuale, facendo pulsare più velocemente il sangue nelle vene e battere forte il cuore. Gli oggetti rotti sono il leit-motiv che ci accompagna per tutta al durata del film, insieme al desiderio di riaggiustarli, di ricomporne i pezzi, di farli funzionare, di scoprire, infine, i loro segreti di testimoni muti delle vicende di noi esseri umani. E poi ci viene suggerito che sono le illusioni a dare senso alla vita e nel film si vede come si possano creare sogni colorandoli a mano, fotogramma per fotogramma. 

E’ il cinema: grande inventore, appunto, di illusioni. Questo film, come The Artist e The Illusionist (non il film del 2006, ma il bellissimo cartone animato del 2010 di Chomet dedicato a Jacques Tati) propone il tema del muto, dell’assenza di parole, e quello della nostalgia e del recupero di ciò che sembra perduto per sempre. In tutti e tre i film – e sono quelli che metterei in testa alla mia personale classifica di gradimento degli ultimi anni – in primo piano assurge il dialogo tra immagini e musica. Quando siamo nati, del resto, quando eravamo molto piccoli, anche le parole che ci rivolgevano non erano altro per noi che prosodia, suoni variamente modulati che esprimevano sentimenti ed emozioni, ma anche l’incoraggiato e il proibito. Conoscevamo il mondo così, per immagini e musica. Poi sono arrivate le parole a con le parole abbiamo cercato di mettere ordine dentro e fuori di noi combinando, talvolta, quando le abbiamo usate come linguaggio separato dagli altri, dei disastri irreparabili.

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