Pioveva,
pioveva e pioveva quando sono uscita di casa, la mattina. E pioveva ancora nel
pomeriggio e ancora la sera, quando sono entrata al cinema. Il cervello,
l’anima, il cuore, tutto, insomma, mi sembrava fradicio di pioggia e quando mi
sono seduta, sia pure al caldo, per ragioni le più
varie ho continuato a sentirmi un po’ come il gatto di “Colazione da Tiffany” quando Audrey Hepburn lo caccia fuori dal taxi e lo abbandona nella pioggia, miagolante, disperato e
stupito. Via gatto, via! Vai via! Perché quel gatto lì non aveva diritto ad
altro nome che “gatto” e così mi sentivo io, ieri sera al cinema, con tutta quella
pioggia.
Colazione da Tiffany, 1961 |
L'arte della felicità, di Alessandro Rak |
Il mondo era rigato di pioggia e visto per lo più solo da dentro un taxi infestato di cicche, tra vecchie foto ingiallite e una lettera sigillata, posata lì, sul cruscotto. Leggila su, dai, leggila anche a noi, leggila a voce alta! Ma lui non ci ascolta e noi, poveri spettatori impotenti, volgiamo di nuovo lo sguardo, insieme al suo, di là da quei vetri rigati di pioggia, verso il mondo delle periferie degradate, dei sacchi di spazzatura abbandonati, tra i vicoli e per le strade di Napoli.
Però riusciamo anche a vedere qualcosa di diverso: frammenti di giardini dell’infanzia, di palazzi
bellissimi e misteriosi. E soprattutto di tanto in tanto dei balocchi un po' desueti come quelli che anche noi, a volte,
immaginiamo siano ancora lì, quasi ad aspettarci, sul tappeto di un salotto che
non c’è più ed era quello di quando eravamo bambini.
Ci si può sentire come un taxi nella pioggia battente quando non si vede niente oltre al grigio del mondo là fuori. E se capita di sentirsi così ci sembra che le persone, con le loro piccole storie, i loro piccoli segreti, salendo e scendendo, ci sfiorino soltanto, per brevi attimi, per una fugace carezza ricambiata, ma senza che di noi resti traccia nella loro vita. E’ questo che pensa il protagonista quando, nella pioggia, alza verso l’alto le sue mani di pianista che non vuole più suonare, urlando a un cielo sordo e cieco il suo dolore.
Hanno grossi tronchi gli alberi, nel film, sono ben radicati nella terra e le loro chiome frusciano al vento, musica nella musica, a scandire le stagioni, i giorni che rincorrono i giorni, le ore che si sovrappongono alle ore, i minuti che quando si è felici volano via ancor più rapidamente. E c’è tutto quello sprecare, nel film e nella vita di ciascuno di noi, quel buttare via occasioni di gioia e abbracci e strette di mani. Gettiamo anche le parole; quelle che si preferisce non dire e restano sospese e altre che si preferisce non leggere o non ascoltare. Sacchi di spazzatura, grigio, pioggia che dilava via il passato.
Losanna, anno e luogo imprecisati. Così accade per i ricordi, anche quando la data e le coordinate spaziali ci sono. |
La perdita, la memoria, i ricordi che fanno male e bene, l’oblio che ci permette di mettere a fuoco solo ciò che in quel momento o in quell’altro vogliamo rendere vivo oscurando tutto il resto: di questo parla “L’arte della felicità”. Rammentandoci che non ci può essere gioia alcuna se non si attraversano con coraggio anche la malinconia e la disperazione della perdita. Senza nascondersi, senza fuggire. Il film sta per finire quando la lettera sigillata viene aperta e quelle parole risuonano nella sala e dentro di noi, portando gioia e dolore. Finalmente non piove più, a Napoli; il cielo ora è azzurro e noi, a questo punto, non sappiamo distinguere la realtà dall'immaginato, ciò che vediamo da ciò che si riflette nello specchio dei nostri desideri.
Berlino 2009, luogo che non ricordo |
Perché i pensieri e i sentimenti sono inafferrabili come i sogni; e le parole, quelle degli addii e quelle dell’amore, ugualmente impalpabili.
L’arte della felicità è racchiusa nel presente, nel saper riconoscere lo sguardo che qui e ora si intreccia con il nostro e non restare prigionieri del passato, ma ricamarlo di nuovi colori per trovarlo ancora, vivo, dentro di noi. Quando sono uscita piovigginava un po’, ma l’ombrello non l’ho aperto.
Grazie per questo bel post. Mi torna in mente un bel libro che ho letto di recente: "L'arte della gioia" di Goliarda Sapienza. Un libro che parla di prigioni e di libertà femminili, di gioia e di dolore come di passi obbligati, attraverso cui raggiungere un equilibrio...la vera felicità? Chissà!
RispondiEliminaGiusi, è un libro che ho amato molto e che ho letto due volte a distanza di un anno. Non ha avuto il successo che avrebbe meritato, come probabilmente accadrà per questo film così bello. Guardando le scene con gli alberi dai grossi tronchi, che sono rappresentati come viventi misteriosi e non come regno vegetale-regno inferiore, mi sei venuta in mente proprio tu mentre ne abbracci qualcuno.
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RispondiEliminaIl blog stamani ha problemi con i commenti. Non mi permette di farli se non come google e non mostra piú a destra quelli recenti. Ho rifatto la procedura ma niente. Se qualcuno riscontra problemi a commentare e me li segnsla mi fa un favore. non so se dipenda dal fatto che ho messo il filtro copi-parola per difendermi daun insistente commento che mi invitava amettere pubblicitá
RispondiEliminaHo una certa paura a pronunciare la parola "felicità", come del resto anche "amore" (il mio vocabolario non conosce la parola "odio"); mi pare che siano troppo cariche di significati che sento così alti da non poterli raggiungere dal mio metro e sessantacinque scarso.
RispondiEliminaPerò condivido in pieno che "i pensieri e i sentimenti sono inafferrabili come i sogni; e le parole, quelle degli addii e quelle dell’amore, ugualmente impalpabili.
L’arte della felicità è racchiusa nel presente, nel saper riconoscere lo sguardo che qui e ora si intreccia con il nostro e non restare prigionieri del passato, ma ricamarlo di nuovi colori per trovarlo ancora, vivo, dentro di noi"
Lo trovi contraddittorio?
Grazie, Antonella
No, non lo trovo affatto contraddittorio, Vincenzo. Se posso uso la parola “gioia” invece di “felicità” perché la seconda è legata a un’idea dello stare bene così assoluta e senza ombre che proprio quest’idea finisce per essere la causa del nostro stare male. Ci fa aspirare a qualcosa di irraggiungibile, dunque ci rende incapaci di apprezzare ciò che è così vicino che basterebbe allungare una mano per carezzarlo e provare. Nel titolo del film, però, il termine usato è quello e sarei stata pedante e anche un po’ antipatica a cominciare questa nota con un puntiglio linguistico. Quanto alla parola “amore” va usata con cautela perché troppo spesso si scambia con la simbiosi e associa all’idea di possesso che le fa da correlato. Anche in questo caso c’è l’idea dell’amore perfetto, senza sbavature, crisi o ripensamenti, senza ombre o distanze e addirittura, a volte, senza differenze, che ci rende incapaci di goderne le occasioni o di farle durare a lungo e persino una vita intera o per il la parte della vita che ci resta.
RispondiEliminaW la felicità!
RispondiEliminaTi auguro un buon inizio di settimana.
Grazie e anche a te!
EliminaL'hanno dato ieri sera sera su Rai3 ed è visibile sul web per altri 6 giorni a questo indirizzo.
RispondiEliminaMi è piaciuto.
La felicità è musica.
La felicità è addirittura il diritto essenziale sancito nella costituzione degli Stati Uniti.
La felicità è adesso.
A me é piaciuta tanto la musica in questo film.
RispondiEliminaLa musica è molto bella, sono d'accordo. Si può sentirne una sintesi qui
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