martedì 12 novembre 2013

Gravity: il peso di vivere e la leggerezza


Gli occhiali per il 3D me li hanno forniti prima di entrare in sala, ma io di solito ne porto anche un altro paio, che non riesco a non indossare. Sono quelli della lettura emotiva e metaforica del film e dunque, stasera, di occhiali per vedere Gravity ne avevo tre.



Immagino già le critiche che si possono fare a questo film; tutte plausibili, forse, ma a me è piaciuto e anche parecchio. Mi ha fatto ripensare che esistono sentimenti di ascesa e altri di discesa. Si vola, si sale leggeri, veloci, sopra e distanti dalle cose per controllarle. Si precipita, si ritorna a contatto con la terra, ma anche con il dolore, quello da cui origina il peso di vivere.


La leggerezza può essere gioco oppure indice di superficialità e distanza emotiva. La gravità indica fatica, ma anche, in fisica, una forza vitale. Ridere, diceva uno studioso nel cui pensiero mi riconosco sempre con gioia, (Donald Winnicott) è mostrare di possedere aria in esubero, mentre il singhiozzo palesa che ci sembra di non averne abbastanza. La leggerezza ci fa volare alti sopra alle cose: le controlliamo con un solo sguardo, ma non le viviamo e alla fine non decidiamo più niente. La gravità ci fa abitare in basso, ci fa coinvolgere correndo il rischio del non controllo, della perdita, della delusione e del dolore. Ma la gioia la respiriamo vivendo sulla terra, non volteggiando tra le nuvole o gli spazi siderali.
Bisognerebbe imparare ad abitare lievemente la gravità e seriamente il gioco e lo scherzo. Questo ho pensato dopo il film, una volta fuori.


E ho pensato anche che bisogna sapere tenere strette a sé le persone alle quali vogliamo bene, ma imparare a lasciarle andare, quando è inevitabile, come dice a un certo punto del film uno dei due protagonisti all’altro. E poi ho pensato che qualche volta ci sentiamo proprio così: attaccati con fluttuanti cordoni ombelicali a qualcosa che ci sembra vitale e che all’improvviso può rivelarsi fonte di pericolo, se non di distruzione e di morte. Così come nella quiete del presente possono irrompere all’improvviso i detriti del passato e sconquassare tutto ciò che avevamo riscostruito e ci sembrava bello, nuovo e durevole. Capita di sentirsi soli nel silenzio e disperati; ma anche quando abbiamo perduto ogni significato, riusciamo quasi sempre, poi, a essere di nuovo  felici di lasciare impronte sulla sabbia ascoltando il rumore della risacca. 


J. W. Waterhouse - Ofelia (1889)

2 commenti:

  1. Come si fa a staccare quei cordoni ombelicali con un passato che fa soffrire???

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  2. Ci si pone la domanda e questo basta. Se ci si pone la domanda vuol dire che stiamo cercando di ritornare alla terra e di imparare a godere di altre occasioni di gioia. Di più non saprei dire...Ma se si resta a volteggiare da soli, nella distanza difensiva dall'alto dalla quale si vede e controlla tutto, non si costruisce niente di duraturo e si resta preda dei detriti del passato...Bisogna rischiare di soffrire ancora piuttosto che anticipare la solitudine che temiamo, allontanandoci da ciò che ci fa stare bene per timore di perderlo. La protagonista femminile del film è infatti segnata, come scopriremo a un certo punto, da una perdita terribile della quale non dico per rispetto di chi non l'ha ancora visto.

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