domenica 6 ottobre 2013

A proposito di suicidi: pensare sull’impensabile.


Suicidio. Un tabù duro a morire. Un gesto che ci lascia sgomenti se messo in atto da persone giovani, che avrebbero potuto - ci sembra - confidare nel tempo che sana tutte le ferite. Però non proviamo minore sconcerto se a praticarlo sono persone anziane, ma ancora sane ed efficienti. 
da Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani
Carlo Lizzani, ieri. Si è gettato dal terzo piano della sua casa, come Monicelli, nel 2010, dal quinto piano della  clinica. Questa foto, così piena di vita e bellezza, è tratta dal suo film “Cronache di poveri amanti". 
Tra i non pochi altri esempi penso a un autore controverso che ho molto amato. E' Bruno Bettelheim, che nel 1990, a 87 anni, dopo essersi imbottito di psicofarmaci buttati giù con abbondante whisky per trovare il coraggio, si è soffocato chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica. 
Miranda - The Tempest
Nella mia esperienza personale ci sono molti  casi di tentativo di suicidio a opera di amici o amiche. E ci sono, purtroppo, anche i suicidi veri e propri, come quello recente di un mio amico e collega che in un’assolata e festaiola mattina di quest’estate si è gettato sotto un treno. Agosto, come le feste di Natale, si sa... Mi sono detta, sgomenta. 
A me è capitato una sola volta di lasciarmi cullare per qualche momento da uno strano desiderio di pace. Ho aperto la finestra, nel gelo di una notte di gennaio, affacciandomi nel buio con il mio dolore; senza avvertire alcun disagio benché indossassi, come sempre, una camicia da notte leggera e senza maniche. Stavo lì immobile, senza neanche più l’energia per piangere, ma concentrata solo sul desiderio di trovare sollievo. Poi è successo qualcosa, come una specie di miracolo laico, diciamo così. Il silenzio è stato squarciato dalla prepotenza dei lamenti di due gatti in amore. Mi è parso che mi ricordassero, con quel loro desiderio sfacciato ed esibito, che la vita è anche gioia condivisa, che ci sarebbero state altre occasioni per ridere, per apprezzare il rumore del mare e i fiorellini selvatici e che avrei potuto cogliere ancora le more sulla siepe di quando ero bambina. E così, sentendo finalmente anche i brividi di freddo, ho chiuso la finestra, ho cercato un plaid di lana in cui avvolgermi e una tazza calda attorno alla quale stringere le mani. 
L. Vermeer, Donna che scrive una lettera con domestica, 1670
Quindi ho acceso il computer e quel dolore l’ho scritto e scrivendolo mi è sembrato che si allontanasse da me per ritornarmi accanto, ma come qualcosa di dolce da potere addomesticare e non più come una morsa che ti stringe il petto e ferma quasi il respiro. 
Mi chiedo se dovrei evitare di dire pubblicamente una cosa del genere. Poi penso: ma a chi non è capitato mai? Raccontarlo serve anche per rendere onore e rispetto a quanti, in un momento simile a quello in cui mi sono affacciata per affidare alla notte e al vuoto il mio dolore, non hanno avuto la fortuna di poter ascoltare alcun richiamo dalla vita.

Istanbul - primavera 2011
Quando ho chiuso la finestra, quella volta, ho pensato che era così bella la notte e piena di luci come altrettante promesse e di stelle come altrettante attese e speranze. Ma non sempre siamo in grado di accorgercene.

"Preghiera in gennaio", composta da Fabrizio De André per la morte di Luigi Tenco, mi sembra una bellissima, degna conclusione.

19 commenti:

  1. Su questo, davvero, mi piacerebbero a maggior ragione i commenti. Anche anonimi o con il solo nome proprio, se uno crede sia meglio, dato l'argomento.

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  2. Credo sia capitato davvero a tutti di pensarci almeno una volta, sì. Ci fu un periodo in cui in stazione fissavo morbosamente i binari dei treni e anche quando attraversavo a piedi, d'inverno, i ponti della nostra città buttavo uno sguardo cupo all'acqua che correva tumultuosa e si portava via i rami. Adesso questi pensieri sono un ricordo lontano e indistinto, non più appartiene quasi più. Hanno lasciato il posto a pensieri di natura opposta, perché la vita è così: imprevedibile e piena di sorprese.

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  3. E' vero, Elena. E' vero che esiste un'attrazione strana verso il vuoto, quasi un desiderio di ritorno alle origini, quando non avevamo cornici spazio-temporali consapevoli a determinare le nostre paure. Eravamo nell'acqua, al buio, avvolti da un involucro caldo, sottoposti al solo rumore di un cuore che batteva come il nostro, così vicino, con quello stesso ritmo binario che dopo avrebbe cadenzato le ninne nanne. Poi siamo usciti alla libertà. Era una prigione, per quanto rassicurante, quella. Libertà significa, però, anche inaspettato, a volte dolore o senso di mancanza per un desiderio non appagato. E tuttavia è quella libertà che rende possibili la curiosità e la scoperta e le gioie condivise, non immaginabili prima.

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  4. Profonde le tue riflessioni, Antonella, offrono uno spazio per guardarsi dentro. Si pensa, un giorno, che sarebbe meglio morire. Forse la speranza di approdare altrove. Di ricominciare un percorso come in verginità, integri. Ricominciare da capo, poter finalmente evitare gli errori che ci hanno tanto segnato. O forse chissà, il dolore supera il limite oltre il quale non si è più padroni della mente. E allora niente può aiutare. neppure il pensiero di un figlio che ha bisogno, una riva di mare, una parete bagnata ripresa dal sole.

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  5. Grazie, Maurizio. Se fossimo meno preoccupati del giudizio su di noi, se avessimo meno paura della nostra fragilità, così da riconoscerla e amarla anche in altri, di sicuro saremmo meno infelici. Di sicuro sapremmo riconoscere sempre le occasioni di gioia, lo sguardo fratello, la stretta di mano complice, il sorriso nascosto dietro un silenzio timido.

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  6. Mi piace l'idea di accostare ad ogni fotografia immaginata un'immagine vera, reale. E ancora di più mi piace il fatto che questa immagine "simbolo" appartenga a vari campi artistici.
    Sandra Giuntoli

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  7. E' vero, presto molta attenzione alle immagini che per me sono un linguaggio primario, immediato, emotivamente molto importante. Spesso uso foto mie, come quella della notte messa in fondo a questo post, scattata lontano da qui e certo imperfetta, ma per me evocativa di un mio stato d'animo di quel momento; di quando l'ho scattata.

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  8. Ci sono molti tipi di tabù. Rispetto a quando ero piccolo alcuni resistono (ad es. il tabù su un'azione da non compiere come l'incesto) mentre altri si stanno sgretolando (ad es. il tabù su certe parole o certi discorsi di cui non si deve parlare, come una volta erano il cancro o il suicidio). Le parole sul suicidio mi hanno accompagnato sin da bambino: avevo sì e no 10-12 anni e un mio compagno di catechismo (che tra l'altro si chiamava proprio come me) si suicidò sotto un treno. E poi, con il passare degli anni, scoprivo che molte persone conosciute e famose lo avevano fatto (Pavese, Tenco, Dalida, ... fino a Monicelli e Lizzani) così come altre persone che conoscevo (la sorella di un mio amico ai tempi del liceo, un mio amico dei tempi dell'Università che lo ha fatto pochissimi anni fa). La prima volta che l'idea mi accarezzò fu durante un viaggio in treno. E poi successe qualche altra volta. Non ne ho parlato mai con nessuno a causa di quel tabù che sento ancora forte e perché ritengo questi pensieri una cosa così strettamente personale da condividere, forse, soltanto chi accompagna e condivide la mia vita.

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  9. Tempo fa mi sono imbattuta per caso nel Kintsugi. La foto mostrava un vaso rotto, riassemblato legando i pezzi con oro. Ho scoperto così l'arte giapponese di valorizzare un oggetto rotto impreziosendolo, perché ciò che ha una storia, ciò che ha una ferita è più prezioso e più bello. Mi ha colpito moltissimo. Non avevo mai avuto notizia di un'arte del genere e, in più, scopro che è stata creata dai giapponesi. Lo stesso popolo che ha codificato il rito del suicidio riesce a vedere bellezza nelle cicatrici che la vita può procurare, riesce a vedere la loro rimediabilità.

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  10. Infrangere tabù e parlare di ciò che ci fa paura per me è una forma di cura. Ci sono molte metodologie di cura, alcune basate sulla cancellazione di ciò che ci crea insicurezza o ci fa paura attraverso un rovesciamento del tipo: "Questo che ti sembra un male in realtà è un bene perché, non so, prepara quest'altra esperienza o chissà perché". Al contrario io penso che sia necessario attraversare anche ciò che ci appare senza senso e ci fa stare male, senza cercare scorciatoie, per non diventare aridi e difesi robot. Però condividendo, parlandone con altre persone e scoprendo che la disperazione di un certo periodo o anche solo di un momento è qualcosa di comune. Che la nostra fragilità a volte ci fa stare male o malissimo, altre bene o benissimo. La nostra fragilità, alla fine, sono i nostri desideri e coltivarli, averne cura, vuol dire anche sopportare un po' di insicurezza o inquietudine. Grazie per queste testimonianze.

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  11. Ieri ho risposto proprio con «Preghiera in gennaio» a qualcuno che definiva Lizzani e Monicelli “codardi”. In casa mia, genitori atei che hanno scelto di non battezzare i figli, il suicidio non è stato un tabù ma un'ombra costantemente presente. Il fratello di mio padre, suicida con i sonniferi a vent'anni, bello intelligente amatissimo ragazzo... erano gli anni '50 quando il paese aveva ripreso una strada già segnata e così lontana dai sogni dei giovani e degli ex partigiani che avrebbero voluto cambiare il mondo. Mio cugino invece aveva sedici anni, quando ha deciso di spararsi con la carabina del padre. Così io mi ci sono dovuta misurare e ci ho pensato, spesso. Nell'età adolescenziale, come estremo gesto di fuga e di rifiuto, poi più avanti, come possibile uscita da un periodo di depressione: una maniera di scegliere dove far terminare una sofferenza che mi induceva vergogna e mi faceva sentire come se fossi già fuori del consorzio umano (disoccupata e vedova nello spazio di un anno, questo il male che non ero riuscita ad affrontare rimanendo “sana”). Oggi ci penso ancora, dopo aver visto mio padre medico soffrire un’agonia terribile in cui a tratti chiedeva “liberatemi!” e noi non abbiamo potuto-voluto farlo; dopo aver salutato Monicelli, che dopo una diagnosi infausta ha deciso di volare via. E oggi Lizzani, e prima Lucio Magri… Non ho smesso di pensarci. La considero una scelta difficile ma civile e degna di rispetto, una via di uscita quando la vita non è più vita.

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    1. In questo post parlavo di Lucio Magri, Marina, che conoscevo di persona, poi ho tagliato quella parte perché sarebbe stato troppo lungo da leggere. Quando morì scrissi una nota su facebook. Provo a metterti il link qui di seguito, oppure la copincollo.

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    2. Il link non riesco a metterlo, perciò ti copincollo il testo, datato 29 novembre 2011.
      Ci ha lasciato Lucio Magri, uno dei fondatori de “Il manifesto” inteso sia come giornale sia come gruppo politico; è morto in una clinica in Svizzera, per suicidio assistito. No, non aveva malattie organiche, nessun tumore, nessun dolore fisico da alleviare, ma uno strazio assai più lancinante, quello della depressione che può toglierti ogni gioia di vivere, che può farti sentire immensamente lontano da te stesso e dagli altri e dalle cose del mondo; un mondo che sembra avviarsi inesorabilmente verso un cammino troppo distante dall’utopia che in altri anni e insieme ad altri aveva disegnato, immaginato, sognato. E’ morto predisponendo tutto e persino il viaggio di ritorno a Roma del suo corpo quando ormai sarebbe stato pacificato nella morte. Ero ragazzina, frequentavo il liceo nel 1972, all’epoca nella quale nacque il gruppo politico de “Il manifesto” e allora mi riconoscevo completamente nel pensiero di Ingrao, che faceva parte della stessa cerchia di persone e restò sempre vicino, negli anni, e che però aveva deciso di non uscire dal PCI. Mi ritrovavo nelle idee particolari di quel gruppo, che mi sembravano coraggiose e uniche. Quella del Manifesto è stata una storia di coraggio, sì, e di utopia. Era bello affermare che un mondo diverso presuppone una maniera diversa, non solo di fare politica, ma, in generale, di vivere, consumare e amare. E’ una frase che cito a memoria dalle Tesi che diedero vita al gruppo e che allora ho letto più volte. Lucio Magri lo ricordo anche, a margine, nelle frasi ironiche sussurrate a mezza bocca tra noi ragazze quando ci recavamo a Roma agli incontri e ai seminari nazionali, perché era bellissimo, come si sa, e i suoi occhi azzurri erano limpidi e profondi. Una volta, a un convegno di qualche giorno organizzato dall’ala femminista, della quale facevo parte, eravamo rinchiusi - ma non ricordo più dove, forse a Napoli - in una specie di grande palazzo con giardini e ci articolammo, in un certo pomeriggio, in gruppi di studio. Provocatoriamente ne proposi uno sulla sessualità e ne fui coordinatrice. Lui si iscrisse proprio a quello; con coraggio, devo dire, perché se era assai apprezzato, da noi donne, per la bellezza fisica, lo era meno per le chiacchiere legate alla sua vita privata e al suo rapporto con l’amore: aveva e aveva avuto troppe relazioni, si infatuava troppo, forse per lui eravamo interscambiabili (o, almeno, così ci sembrava), chissà... Litigai con lui nel bel mezzo della discussione. E facemmo pace. Si era esposto parlando, proprio in quel contesto, del suo rapporto con le donne e mi ricordo che aveva insistito molto – oggi direi profeticamente, visti i berlusconismi sessuali – sul fatto che lui cercava delle interlocutrici adulte, che aveva avuto in genere coetanee o anche donne più grandi, ma che non era mai stato interessato alla donna - bambina passiva e dipendente intellettualmente con la quale l’uomo gioca a fare Pigmalione; e questo gli sembrava già importante. Aveva ragione, allora, ed stato più profetico di me, ragazza ancora acerba tutta compresa nella propria hybris femminista. Addio Lucio, mi sento, ci sentiamo tutti, un po’ più soli nel voler continuare a sognare.

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    3. Ti ringrazio, per questo e per il post totale! Lucio Magri (bellissimo, sì...) mi ha commosso e suscitato un sentimento di immenso rispetto. Proprio ricordando quell'utopia, che riguardava l'intera vita, dai sentimenti alla politica. Tu e prima lui, avete riportato il mio pensiero a mio padre, che prima di entrare in quello stato semi incosciente degli ultimi 5 durissimi mesi, mi aveva detto "Se vivessimo in un paese civile, ora io sceglierei di andarmene". Anche lui era un grande e quel desiderio avrei voluto realizzarlo io, ma non ho potuto: avrei scatenato un conflitto orribile. Com’è stato difficile. Credo che Lucio Magri, con quel suo predisporre tutto, fin nei minimi dettagli, abbia usato una gentilezza e una compassione verso amici e cari che è veramente ammirevole segno di civiltà. Con immutato affetto e stima per il mio grande padre e per quel fratello che non lo voleva lasciar andare…

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  12. Stamani ho parlato a lezione del suicidio come tabù, questione di cui non si deve dire niente, ma ignorare. E’ un tabù difficilissimo da infrangere, salvo poi pensare cose tipo ma perché non ho cercato quella persona, ma perché prima di togliersi la vita non ha chiesto aiuto o non l’ha chiesto a me, che gli ero amico… I perché postumi non servono a niente, ma serve, invece, capire prima, parlarne. Avevo davanti a me (e anche di lato e dietro) 150 paia di occhi attentissimi e perciò ho capito, mentre parlavo e come già immaginavo, che nessuno, proprio nessuno, era estraneo all’argomento. Che alcuni ne avevano avuto esperienza in famiglia o fra gli amici, che altri l’avevano tentato e molti di più pensato, almeno una volta come una via di fuga o un grido di dolore e denuncia. Tra l’altro, e per caso, ho in programma un testo che affronta questo problema. E’ un classico della psichiatria fenomenologica, molto controverso e discusso, scritto negli anni quaranta su un caso di suicidio (annunciato) riferibile agli anni 20. Riguarda una donna, Ellen West, che aveva tutto, che era bella e colta, era amata ed era benestante, ma percepiva l’esistenza come un peso insopportabile.

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  13. Cara Antonella, faccio parte di quella generazione di mezzo oggi 40enni che è cresciuta ad ideali e anticonformismo in una realtà sociale che persi il fermento della fine degli anni '60 e '70 si avviava a una stagione di confusione culturale in cui ha preso il sopravvento la "cultura" del consumo. Non siamo la generazione del nichilismo (U. Galimberti) ma neanche dell'ottimismo, di mezzo appunto.
    Durante l'adolescenza pensieri di morte mi hanno sfiorato spesso più per "farla pagare" ai genitori, ma è nell'ultimo anno che ho dovuto affrontare una situazione emotiva in cui il pensiero di farla finita era un desiderio forte, contrastato dall'avere due piccoli tanto desiderati... e poi c'è stato un momento in cui neanche questo pensiero contrastava il desiderio di morte. La depressione era più forte di tutto!!! Ero (e sono) in terapia e quando ho capito che da sola non ce la facevo a contrastare questo desiderio ho chiesto aiuto ai miei e ho fatto la scelta condivisa con la terapeuta di rivolgermi a uno psichiatra per un aiuto chimico. All'inizio ho fatto fatica ad accettare questa soluzione, mi sentivo sconfitta... oggi penso di aver fatto una scelta di cura verso me stessa, in fin dei conti non ero lucida e la scelta di morire sarebbe solo stata la conseguenza del velo nero che mi era calato nell'anima.
    Penso che una scelta come quella di Lucio Magri sia lucida e veramente una scelta, nei giovani penso non sia una scelta lucida e consapevole ma semplicemente mancanza di prospettiva, di orizzonte, di possibilità di trasformare la realtà... come se fossero vuoti di futuro.
    Penso che le distinzioni siano doverose e che richiedano anche interventi differenziati, oggi il suicidio tra i giovani non è un tabù, l'età si è abbassata e spesso le motivazioni sono "futili". Più che affrontare il "tabù del suicidio" penso che dobbiamo attrezzarci a una seria alfabetizzazione emotiva.
    Michela

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    1. Cara Michela, sono d'accordo con te e credo che ogni suicidio o tentativo di suicidio racchiuda un proprio significato, in parte inafferrabile, ma che dobbiamo rispettare. Spesso, però, dietro c'è la depressione e credo anche che tu abbia fatto bene a intraprendere un percorso di cura. Sono anche convinta che infrangere il tabù, non vergognarsi e parlarne possa rappresentare un forte elemento coadiuvante della cura stessa. Se avrò, come penso, occasione di passare da Venezia, ti cercherò. Saranno passati almeno dieci anni dall'ultima volta che ci siamo viste. O di più? Un abbraccio.

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  14. Ci conto Antonella!! Hee già ne è passata di acqua sotto i ponti per evocare un luogo, il ponte, carico di significato per Venezia unisce e segna confini, luogo di incontri e di scontri...
    Spero a presto un abbraccio!!

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  15. Ho letto tutto, e proprio tutte le parole che sono scaturite dal post di Antonella (carissima) e non oso esprimere giudizi, tale è la profondità di pensieri che ho percepito, tale la sensibilità delle persone che sono "intervenute".
    Se mi aggiungo indebitamente è per testimoniare il mio caso: in sessanta anni e più non mi ha mai sfiorato il pensiero di porre fine alla mia vita. Un dato di fatto. E poi, senza neppure segnalare lo spunto dal quale è nato lo strano desiderio di mettere a parte chi leggesse, quando rifletto con la mia Arianna su cosa fare di me -di quel che resterà- dalla riduzione a ceneri, mi sento un po' contrariato lei non senta di accondiscendere al mio desiderio per il primo "cassonetto" si incontri per strada.
    Mi importa tanto, ma tanto della vita e di ciò che i miei sensi riescono a spiare. Tanto poco della morte…

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Scrivere in un blog è come chiudere un messaggio in una bottiglia e affidarla alle onde. Per questo i commenti sono importanti. Sono il segno che qualcuno quel messaggio lo ha raccolto. Grazie in anticipo per chi avrà voglia di scrivere qui, anche solo e semplicemente per esprimere la propria sintonia emotiva.