martedì 15 dicembre 2015

Paludi dell'anima


La palude. 
E' una metafora carica e ridondante. La palude è bella, se vista da lontano, meravigliosa, se dall'alto, ma insidiosa, cupa, vischiosa e mortifera dal di dentro.



La pioggia battente. 
Non vedi più niente. I mille rivoli che scivolano sui finestrini dell'auto in corsa, i vestiti bagnati, le foglie cariche, i vetri delle finestre rigati: tutto è acqua e tutto appare distante e vicino insieme, trasfigurato da quello scrosciare insistente, da quel rumore ritmico  e metallico a ancora e ancora finché spariscono le poltroncine foderate di rosso e le pareti e ti pare persino di sentire i brividi di freddo nelle ossa.  



Il fenicottero rosa.
A un certo punto c'è quel primo piano di un fenicottero e si resta come ipnotizzati dal suo sguardo puntuto, fisso, indecifrabile. Ci piacerebbe fermare il film, tanto sono belle le immagini. Si vorrebbe, non si sa come, entrarci dentro. Perché non si tratta di immagini di un documentario, ma di creazioni nuove. Sono come fondali dipinti che non si accontentano di rappresentare la realtà e interpretano, invece, i sentimenti che ci genera.



Quelle immagini ci ammaliano perché riverberano, semmai, lo stupore di fronte al fatto che la bellezza inafferrabile della natura non ci rassicura né preserva dall'irrompere del male, della cattiveria insensata, dell'impensabile. Si tratta, per lo più, di immagini dall'alto. Cioè: lo sono le più belle. Così, anche da non credenti, possiamo immaginare lo sguardo di una divinità lontana, che contempla la bellezza della terra e se ne appaga senza coinvolgersi nelle vicende dell'umano dolore e nulla potendo contro la banalità del male.



Le povere cose nei vecchi cassetti. 
Si resta affascinati dall'uso sapiente del contrasto tra nitidezze e sfocature, dai primi piani così definiti di contro agli sfondi cupi o offuscati. Ci sono, poi, interni scuri di mura sgretolate, di suppellettili provate dal tempo; e i poveri oggetti custoditi nella camera di quelle donne-bambine che non si trovano più, che sembrano sparite nel nulla, diventano protagonisti della scena. Ecco i loro diari stropicciati, i depliant che promettono benessere e felicità a poco prezzo, i ninnoli e le borsette dozzinali.



I corpi offesi. 
L'acqua paludosa restituisce presto i loro corpi martoriati, le piccole speranze in frantumi, la paura, il dolore, le ferite, la carne livida, la carne bruciata. E insieme ci mostra la verità dell'esistenza del male, del piacere di provocare sofferenza per sentirsi forti e onnipotenti come una divinità.



La tensione è accentuata dalla colonna sonora; da alcuni suoni limpidi e minimali di pianoforte che si stagliano nel rumore/suono di fondo, teso per renderci tesi, metallico, ostinato.



Siamo nella Spagna degli anni '80, quella che si affaccia da poco alla democrazia, che tenta di liberarsi dalla pesante zavorra del passato nella quale è invischiata, proprio come in una palude bassa e infida. Eppure tutto, i colori e le persone, ci suggerisce che forse abbiamo letto male e siamo indietro di dieci o venti anni rispetto a quelli dichiarati all'inizio del film.



Si può torturare  e uccidere per il perverso piacere di distruggere, per sentirsi potenti sessualmente e psicologicamente di fronte a un altro che trema o urla di paura e di dolore per colpa nostra.



Oppure si può farlo freddamente, per obbedienza. E' ciò che accade in ogni regime dittatoriale. Chi esegue si distacca da sé nel momento stesso in cui esegue  e non si riconosce nella propria azione - che considererebbe turpe se conseguente all'iniziativa di un singolo - perché la vive come dettata dall'esterno. E' così che funziona. Le dittature, cioè, si reggono proprio sulla scissione tra le scelte di alcuni pochi e l'obbedienza cieca dei più.



Il bene e il male.
Il male e il bene certe volte non si sa più dove stanno e non si riesce a districare quel loro stretto e pervicace annodarsi; quell'avvilupparsi alla nostra stessa fragilità di spettatori, fagocitati nella magia di disvelamento che può realizzarsi attraverso una macchina da presa .


2 commenti:

  1. Io sono rimasto affascinato dalle scene riprese perpendicolarmente dall'alto (quasi sicuramente da un drone). Mi hanno ricordato le fotografie che guardavo da piccolo sulla rivista Oggi che comperavano i miei e che erano relative ad un servizio in più puntate sull'Italia vista dal cielo (immagino adesso che le foto fossero tratte dai documentari omonimi girati tra il 1966 e il 1978 da Folco Quilici). Ma mi hanno anche fatto tornare in mente alcuni punti di vista perpedendicolari di Lars Von Trier in Dogville.

    Sono d'accordo: il film La Isla Mínima è proprio molto bello e ha una fotografia spettacolare. Viene voglia di andare a vedere dal vivo quei posti sperando di rivivere le stesse emozioni.

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    1. A proposito di venire in mente per associazioni di ricordi. Quando ero adolescente c'era anche chi, girando in elicottero su piccoli paesi dell'entroterra collinare, come il mio, fotografava e vendeva la foto delle case viste dall'alto ai proprietari. Le foto erano a caro prezzo, ma all'epoca l'aereo era ancora appannaggio di pochi o esperienza rara e vedere dall'alto aveva un sapore di magia.

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