domenica 13 dicembre 2015

Amori tossici

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (part.), 1622-25
Ci sono molte specie di amori tossici. Cioè di pseudo-amori che amori potrebbero diventare, ma non ci riescono; può capitare anche, come nel film che ho visto ieri sera, che imprigionino esattamente come una droga. 



Un film che ho trovato molto bello e che parla soprattutto degli uomini di adesso e delle loro paure. Parla anche, per contraltare, di quella maledetta tensione a redimere che ancora possiede molte donne; e non importa che siano emancipate, anzi, libere, con una professione, apprezzate, con una vita relazionale appagante, belle (persino) e intelligenti e chi più ne ha più ne metta.


Sono dapprima diffidenti, come la protagonista del film, della troppa disponibilità e fretta di lui, di quel voler subito passare alle parole del per sempre, all’eternità dei sentimenti, allo stare insieme ogni minuto o secondo della vita; ma quei sentimenti dichiarati eterni si mostrano ben presto, invece, talmente fragili da non reggere nemmeno le piccole ansie di lei nel momento particolare della gravidanza.


Però ci cascano, le diffidenti, e ben presto appaiono lusingate dalla propria funzione salvifica – con me lui cambierà – e ridono e credono di vivere una parità di fratello/sorella che sono anche amanti fino a che, alla fine, come mosche in trappola nella ragnatela, rimangono prigioniere della spirale rabbiosa della delusione.


Si dibattono, allora, urlano, piangono, si disperano, corrono incredule da una stanza all'altra, da una casa all'altra e a volte scoprono quella banalità che c'è da scoprire: il tradimento seriale che non dà neanche soddisfazione, che non ti ricordi neanche più chi sia quella che dorme nel tuo letto e meno male, magari, che ha un marito o un fidanzato ufficiali così non ti si attacca.


A volte funziona, però, come scappatoia rispetto ai problemi, come fuga dalle responsabilità, come anestetico nei confronti della paura di essere lasciato, di non essere più o non essere mai stato davvero il re nel regno in cui lei, la regina, deve solo aspettare le sue decisioni sul tempo.


E' il tempo l'altro protagonista del film, oltre a loro due: quello frenetico e quello lento, dopo l'incidente; governare il tempo è l'obiettivo di lui; è il Re perché decide del tempo, del quando e del quanto dureranno la freddezza o il calore, la vicinanza o la distanza. Il banale incidente, la carrozzella, la riabilitazione dolorosa permettono a lei di riprendersi il tempo; ce la obbligano, cioè.


Gli occhi chiusi, allora, lei ripensa il turbinio e se stessa. Tutto il senso del film potrebbe forse essere racchiuso nel breve fotogramma in cui la bocca di lui si piega impercettibilmente all’ingiù, come il bambino che non ha più il suo giocattolo, mentre lo sguardo si fa acquoso e distante: accade quando lei riceve la telefonata di lavoro per un’occasione importante e inaspettata.


Te la farò pagare. Ti farò pagare questa gioia, questo "vengo subito in ufficio" che mi mette in secondo piano, questo "ma dici davvero" al telefono con la gioia negli occhi che non riguarda me, il tuo re. Chi sono io, se non posso essere il centro della tua esistenza, l’origine unica e il solo termine della tua felicità, il padrone del tuo tempo che decide senza neanche consultarti la sua dilatazione e le sue accelerazioni? Il re è nudo, al termine del film; e ti si stringe anche il cuore perché ti fa un po' pena, quel bambino che sta troppo largo nel corpo di un uomo.


Difficile, oggi, voler essere una donna senza essere madre di un uomo, se non dei propri figli o figlia di un uomo, se non del proprio padre. Forse è l’utopia più grande: un rapporto tra pari. Bisogna prima che gli uomini accettino di convivere con le proprie paure a partire da quella della possibilità della perdita. Temo, anche se vorrei tanto sbagliarmi, che siano pochi quelli che ci riescono o che almeno si sforzano di farlo, con onestà verso se stessi.
Il film finisce quietamente, sui toni bassi, anche se non dirò come per rispettare chi non l'ha ancora visto. Bassi sono anche gli occhi di lui quando seduto accanto a lei e di fronte agli insegnanti (o psicologi ?) riconosce nel figlio le doti di lei e quelle del proprio padre. Perché lui, nel qui e ora, come uomo e essere umano, si sente nulla. E se ne va, chiudendo piano la porta, a rifugiarsi in un baratro di silenzio e libertà.






2 commenti:

  1. Ma come si fa a superare la paura della possibilità della perdita?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non si può mica superare...Si può cercare di conviverci e di accettare il rischio, cioè la possibilità della perdita. Amare è rischioso e c'è anche chi, per non rischiare, ci rinuncia.

      Elimina

Scrivere in un blog è come chiudere un messaggio in una bottiglia e affidarla alle onde. Per questo i commenti sono importanti. Sono il segno che qualcuno quel messaggio lo ha raccolto. Grazie in anticipo per chi avrà voglia di scrivere qui, anche solo e semplicemente per esprimere la propria sintonia emotiva.