domenica 9 novembre 2014

Alla fine ho trovato il coraggio e l'ho fatto...

Firenze, 7 novembre 2014
Venerdì sera. C’è un dipinto sul muro. Io sono una che legge anche le scritte dei bagni pubblici, oltre a quelle dei muri e a quelle incise sulla corteccia degli alberi. Cuori trafitti, nomi intrecciati, frasi di addio o di inizio di un amore mi invitano a nozze e parto con le supposizioni romanzate e la fantasia…Un cuore rosso sul muro giallo, una sagoma nera e un’altra, alla base del muro, non si sa se a testimoniare qualcosa o ad attendere.

Stessa strada, in basso, sotto il cuore e tra foglie cadute.
Vado avanti, voltandomi indietro due o tre volte a riguardare quel cuore rosso. Una volta seduta, dopo poco sento le gambe pesanti e un dolore insopportabile ai polpacci, ma nello stesso tempo ho freddo alle spalle e alla testa. Nonostante i disagi di questo cinema non familiare, con il riscaldamento sotto i piedi e spifferi tremendi dall’alto, il film di Wenders sulla vita di Salgado mi trascina quasi subito con sé, in un’altra dimensione.



Dapprima è quella del dolore e della perduranza del male, lungo i secoli, riverberato in quei corpi ammassati, quelli dei vivi e quelli dei morti per l’insensatezza degli uomini; gli uomini che dovrebbero essere il sale della terra e la bruciano e si uccidono e si sfruttano l’un l’altro.




Una crudeltà indicibile attraversa le epoche e la storia e quegli occhi dal dolore profondo ci scavano dentro, specialmente per il bianco e nero delle foto, e ci precipitano nell’abisso del non senso.




Poi, però, è la volta delle immagini di "Genesi" e attraverso di esse la terra ci è di nuovo madre. Si tratta di immagini che avevo già visto lo scorso anno a Venezia, in una bella mostra della quale ero convintissima di avere acquistato il catalogo.


Il catalogo non ce l'ho, ma ho questo poster, ancora arrotolato
Ma il catalogo a casa non c’era ieri sera, quando avevo fretta di uscire, e non c’era stamani, quando ho guardato con più meticolosità. Un falso ricordo; capita.
Sabato sera. Lo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza è bellissimo, coinvolgente, straniante, appassionato.


Le musiche avvolgono come un abbraccio corale chi guarda, prigioniero della sua poltroncina, in attesa di riacquistare la propria liberà, e chi si lascia guardare in questo che per lui è invece un raro spazio di libertà, in attesa di ritornare dietro le proprie sbarre.


Loro si muovono tra noi e sul palco, truccati e vestiti come figure di sogno, con tutta l’esagerazione e il sopra le righe che solo chi è libero può concedersi; intendo chi è libero di urlare o di sussurrare, di stare in alto o in basso, di entrare nel cono di luce o di raggomitolarsi nell’ombra per un po’ senza che altri lo decidano per lui. Non hanno niente da perdere, loro.


Invece, noi. Noi siamo immobili, come inchiodati al nostro posto e tratteniamo un po’ il respiro, ma a un certo punto vengono a liberarci, vengono a chiedere di entrare nel vortice del valzer, invitando quelli che sono seduti dove possono alzarsi senza disturbare nessuno. Io vorrei tanto ballare, ma sono seduta al centro della mia fila e non posso uscirne. Qualcuno di quelli a cui viene chiesto, invece, si rifiuta spaventato scuotendo la testa. Il timore è quello di perdere la dignità: è il timore di chi è libero e dunque trasforma da solo la sua libertà in un’invisibile prigione.


E’ la prigione delle convenienze, delle abitudini, della ricerca di accettazione a tutti i costi, dell’immagine che si è scelto di offrire agli altri e a noi stessi, del bisogno spasmodico della loro approvazione, della paura di lasciarsi andare alle emozioni e ai desideri profondi.
Torno indietro di poche ore, al mio sabato mattina. L’auto attraversa veloce le colline familiari ed eccomi da mio padre. Non mi accompagna, preferisce gli amici, i tavolini del bar della piccola piazza dove ho appena condiviso con lui un caffè e così vado da sola a fare una lunga passeggiata prima di ripartire.


Ho deciso di fotografare l’arancione, il colore che da sempre preferisco su tutti gli altri e dunque mi diverto, strada facendo, a scoprirne tutte le variazioni sul tema che la natura può offrire. Passeggiando ripenso al film di Wenders nella sua parte finale, alla vita di Salgado, alla mostra senza il catalogo di ricordo e mi viene il desiderio di fare una cosa strana.

Sempre Salgado, naturalmente.
Vorrei abbracciare un albero, uno di quelli che mi hanno vista passare in tutte le età della mia vita. Non vorrei sceglierlo in base alla sua bellezza, ma solo per il suo ruolo di testimone partecipe. Vorrei abbracciare, ecco, un certo cipresso. Ma se mi vedono? Farei una magra figura in questo piccolo paese che è sempre stato attraversato da pettegolezzi e ironie pungenti, dato che di eclatante non succedeva mai niente e molti ingannavano il tempo così. Ho la tentazione di guardarmi intorno per vedere se le tre persone che ho incrociato sono sparite dietro la curva, ma non mi volto.


La principessa di Edward Robert Hughes, data che non so
Chissenefrega, sono sempre stata me stessa e non mi interessa, oggi come ieri, che il giudizio delle persone a cui voglio bene e che me ne vogliono. Intanto mi avvicino all’albero che ho scelto, a quel cipresso sotto il quale, da bambina, ho sostato tante volte, la mano stretta in quella grande di mio nonno che mi spiegava la differenza tra i vari alberi, il nome e come avveniva l’inseminazione e io capivo il giusto, a quattro o cinque anni, ma mi piaceva lo stesso ascoltarlo. Quando l’albero ce l’ho davanti, lo guardo, alto e fiero e mi pare che sussurri di abbassare lo sguardo e  così vedo la mia ombra, cioè una me fatta di piccole foglie aghiformi e anch'io senza più le braccia.


Alla fine trovo il coraggio e lo faccio. Sbottono il cappotto che indosso e mi appoggio con tutto il corpo al suo tronco, apro le braccia, lo avvolgo. Sento un grande calore pervadermi tutta che non so più se sia il mio o il suo o il riverbero di un abbraccio in cui presto le mie braccia a chi braccia non ne ha, o verità o sogno. Resto ferma così abbastanza a lungo e sento battere forte un cuore, il mio, il suo, non lo so più; chiudo gli occhi per sognare qualcosa e sono come ridipinta tutta anch’io di verde, nel profumo che l’albero mi regala per compensare il mio abbraccio e che è ora anche il mio e mi commuovo, proprio come una stupida.

Władysław Ślewiński, Donna che dorme con gatto, 1896


1 commento:

  1. Bello, tutto bello e coinvolgente, Antonella. E magari fossimo tutti stupidi così, in quel senso dell'abbraccio.

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