Firenze, 7 novembre 2014 |
Venerdì
sera. C’è un
dipinto sul muro. Io sono una che legge anche le scritte dei
bagni pubblici, oltre a quelle dei muri e a quelle incise sulla corteccia degli
alberi. Cuori trafitti, nomi intrecciati, frasi di addio o di inizio di un
amore mi invitano a nozze e parto con le supposizioni romanzate e la fantasia…Un
cuore rosso sul muro giallo, una sagoma nera e un’altra, alla base del muro,
non si sa se a testimoniare qualcosa o ad attendere.
Stessa strada, in basso, sotto il cuore e tra foglie cadute. |
Dapprima è quella del dolore e della perduranza
del male, lungo i secoli, riverberato in quei corpi ammassati, quelli dei vivi
e quelli dei morti per l’insensatezza degli uomini; gli uomini che dovrebbero
essere il sale della terra e la bruciano e si uccidono e si sfruttano l’un
l’altro.
Una crudeltà indicibile attraversa le epoche e la storia e quegli
occhi dal dolore profondo ci scavano dentro, specialmente per il bianco e nero
delle foto, e ci precipitano nell’abisso del non senso.
Poi, però, è la
volta delle immagini di "Genesi" e attraverso di esse la terra ci è di nuovo madre. Si tratta di immagini che avevo già visto lo scorso anno a Venezia, in una bella mostra della quale ero convintissima di avere acquistato il catalogo.
Sabato
sera. Lo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza è bellissimo, coinvolgente,
straniante, appassionato.
Le musiche avvolgono come un abbraccio corale chi
guarda, prigioniero della sua poltroncina, in attesa di riacquistare la propria
liberà, e chi si lascia guardare in questo che per lui è invece un raro spazio
di libertà, in attesa di ritornare dietro le proprie sbarre.
Loro si muovono
tra noi e sul palco, truccati e vestiti come figure di sogno, con tutta
l’esagerazione e il sopra le righe che solo chi è libero può concedersi;
intendo chi è libero di urlare o di sussurrare, di stare in alto o in basso, di
entrare nel cono di luce o di raggomitolarsi nell’ombra per un po’ senza che altri
lo decidano per lui. Non hanno niente da perdere, loro.
Invece, noi. Noi siamo
immobili, come inchiodati al nostro posto e tratteniamo un po’ il respiro, ma a un certo punto vengono a liberarci, vengono a chiedere di entrare nel vortice del valzer, invitando quelli che sono seduti dove possono alzarsi senza disturbare nessuno. Io vorrei tanto ballare, ma sono seduta al centro della mia fila e non posso uscirne. Qualcuno di quelli a cui viene chiesto, invece, si rifiuta spaventato scuotendo
la testa. Il timore è quello di perdere la dignità: è il timore di
chi è libero e dunque trasforma da solo la sua libertà in un’invisibile prigione.
E’ la prigione delle convenienze, delle abitudini, della ricerca di
accettazione a tutti i costi, dell’immagine che si è scelto di offrire agli
altri e a noi stessi, del bisogno spasmodico della loro approvazione, della
paura di lasciarsi andare alle emozioni e ai desideri profondi.
Torno
indietro di poche ore, al mio sabato mattina. L’auto attraversa veloce le
colline familiari ed eccomi da mio padre. Non mi accompagna, preferisce gli
amici, i tavolini del bar della piccola piazza dove ho appena condiviso con lui
un caffè e così vado da sola a fare una lunga passeggiata prima di ripartire.
Ho deciso di fotografare l’arancione, il colore che da sempre preferisco su
tutti gli altri e dunque mi diverto, strada facendo, a scoprirne tutte le
variazioni sul tema che la natura può offrire. Passeggiando ripenso al film di
Wenders nella sua parte finale, alla vita di Salgado, alla mostra senza il catalogo
di ricordo e mi viene il desiderio di fare una cosa strana.
Sempre Salgado, naturalmente. |
Chissenefrega, sono sempre stata me stessa e
non mi interessa, oggi come ieri, che il giudizio delle persone a cui voglio
bene e che me ne vogliono. Intanto mi avvicino all’albero che ho scelto, a quel
cipresso sotto il quale, da bambina, ho sostato tante volte, la mano stretta in
quella grande di mio nonno che mi spiegava la differenza tra i vari alberi, il
nome e come avveniva l’inseminazione e io capivo il giusto, a quattro o cinque
anni, ma mi piaceva lo stesso ascoltarlo. Quando l’albero ce l’ho davanti, lo
guardo, alto e fiero e mi pare che sussurri di abbassare lo sguardo e così vedo la mia
ombra, cioè una me fatta di piccole foglie aghiformi e anch'io senza più le braccia.
Alla fine trovo il coraggio e lo
faccio. Sbottono il cappotto che indosso e mi appoggio con tutto il corpo al
suo tronco, apro le braccia, lo avvolgo. Sento un grande calore pervadermi
tutta che non so più se sia il mio o il suo o il riverbero di un abbraccio in
cui presto le mie braccia a chi braccia non ne ha, o verità o sogno. Resto ferma così abbastanza a lungo e sento
battere forte un cuore, il mio, il suo, non lo so più; chiudo gli occhi per sognare
qualcosa e sono come ridipinta tutta anch’io di verde, nel profumo che l’albero
mi regala per compensare il mio abbraccio e che è ora anche il mio e mi
commuovo, proprio come una stupida.
Bello, tutto bello e coinvolgente, Antonella. E magari fossimo tutti stupidi così, in quel senso dell'abbraccio.
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