giovedì 8 agosto 2013

Sola nell'auto che corre verso le colline


Sono sola nell’auto che corre verso le colline e avvolta di musica mi lascio incantare dai colori forti dell’autunno toscano infuocato di contrasti e un po' malinconico. Mi sembra di conoscere ogni albero, siepe, segnale, scritta, muretto della strada che da Pisa si dirige nel volterrano, verso il mio microscopico paese di origine. 
Ho vissuto infanzia e adolescenza in una dimensione di narrazione continua. I rumori e i suoni, per esempio, sia di giorno che nel silenzio della notte, alludevano sempre a esperienze ripetute e a persone definite. Si era attenti a tutti i segnali sensoriali e capaci di interpretarli con precisione. 



Si era capaci di cogliere il cambiamento delle stagioni, il volgere del giorno e del tempo della vita. Si captava il momento che lasciava presagire la fine o l’inizio di un avvenimento, come animali che si tendono, le narici frementi e gli occhi vigili, verso qualcosa di invisibile e di intenso: la pioggia o la neve imminenti, per esempio, o anche le gemme che vibrano tutte insieme di una nuova possibile vita. 
In città, anche in una piccola città come la mia, tutto questo in gran parte si perde: i rumori si accavallano ai suoni e risultano troppi, imprevedibili, privi di ritmo perché li si possa interpretare. Prestare loro troppa attenzione ci disorienterebbe e così, al pari degli odori e dei colori, non li avvertiamo più come segnali di comunicazione con la natura e con gli altri.


A 16 anni, però, sognavo di fuggire in città: dove avrei trovato librerie e cinema, teatri e sale da musica, luoghi dove parlare di cose diverse in base alla maggiore varietà di ciò che poteva accadere e persone nuove da conoscere. 



Nel mio piccolo paese non succedeva mai niente; c’era un cinema con un solo spettacolo settimanale; e neanche una libreria. Le persone, per riempire il tempo, si facevano a volte i fatti degli altri con esasperante crudeltà, resa evidente dai soprannomi ai quali quasi nessuno sfuggiva e che erano legati, per lo più, a difetti fisici anche invalidanti o a fragilità del carattere.

Da ragazzina mi rifugiavo in alto, lontano, nel silenzio dei poggi, spesso con la bicicletta; come mi capita ancora oggi con l’auto, spingendomi fin dove si può e poi proseguendo a piedi. Allora sceglievo la solitudine e guardavo da una distanza infinita le case attaccate l’una all’altra e la grande torre quadrata al di sopra di tutte.  
A seconda dell’umore le pietre brune o rossicce che fondevano in un’unica forma muri e abitazioni mi parevano come legate in un abbraccio di tenerezza solidale o invece incatenate nella più insopportabile condizione di prigionia.


Ancora oggi mi mancano gli odori della campagna; e in campagna la maggiore libertà della città. In perenne conflitto tra l’una e l’altra dimensione sogno da sempre una campagna con luoghi di aggregazione culturale e una città che non mortifichi il nostro legame con la natura. 

2 commenti:

  1. Antonella, mi piace questa trama retrospettiva e che proietta nel contempo verso il futuro. Quando si fa tesoro dei vissuti anche più complessi cresce in noi una forza particolare, quella appunto che ci fa salire in alto, "nel silenzio dei poggi", a cercare ispirazione per riscriverci da capo... E' quello smarrimento che descrivi molto bene nel tuo libro e che ho apprezzato particolarmente, come sai. La perdita del Sé non è solo uno spettacolo tragico ma è anche uno smarrimento attivo, un pulsare dell'io verso la natura, ossia verso l'origine che ci è comune...

    RispondiElimina
  2. L'esperienza di quel silenzio solitario è anche la base per poter andare incontro agli altri.

    RispondiElimina

Scrivere in un blog è come chiudere un messaggio in una bottiglia e affidarla alle onde. Per questo i commenti sono importanti. Sono il segno che qualcuno quel messaggio lo ha raccolto. Grazie in anticipo per chi avrà voglia di scrivere qui, anche solo e semplicemente per esprimere la propria sintonia emotiva.