mercoledì 21 settembre 2016

La memoria e l'oblio

Dal film Rughe, di Ignacio Ferreras
E' un'esperienza assai comune quella del dolore sbigottito per la morte sociale di una persona che è stata protagonista della nostra rete affettiva. Ci si sente disorientati di fronte a un padre o una madre che non ci riconoscono come figli, che non ricordano neanche se hanno appena mangiato e non sanno dire in che stagione siamo. 


Allora si cerca di scuoterli, di riportarli nel presente, di stimolare il loro interesse, di mantenere vigile la loro competenza cognitiva. Come deve essere stressante, per loro, questo continuo sentirsi sotto esame, questo costante dover dimostrare, questo non poter lasciarsi andare all'associazione del momento, alla dimensione dell'analogico e a quella del ricordo legato ad altre e più felici stagioni della propria vita!
 
Rita Hayworth, che si ammalò molto precocemente di Alzheimer. All'epoca se ne sapeva poco e i sintomi furono interpretati per diversi anni come espressione di alcolismo.
Occupandomi di memoria ho letto molto su questa patologia nella quale questa funzione identitaria è offesa profondamente, ma anche visto film, dato che ce ne sono di bellissimi. 
Iris Murdoch 
Fra tutti ricordo Iris. Un amore vero, di Richard Eyre, che racconta della grande scrittrice e filosofa Iris Murdoch e di quanto le manifestazioni di esordio della malattia, la perdita progressiva di memoria rispetto alle parole, fossero tanto più dolorose per una persona che  aveva incentrato la propria vita sulla capacità di dominarle e di usarle creativamente.

Iris Murdoch
Penso anche, tra i tanti, al bellissimo film di animazione Rughe, di Ignacio Ferreras, basato su una graphic novel di Paco Roca.


E poi ricordo la commozione suscitata dalla lettura dell'autobiografico Il vecchio re nel suo esilio, nel quale lo scrittore Arno Geiger racconta la malattia del padre e soprattutto le proprie reazioni difensive. Perché spesso, di fronte alla sofferenza di qualcuno che amiamo, agiamo in modo da attenuare la nostra, invece della sua, anche se non ce ne rendiamo conto.


Invece di scoraggiare le immersioni nel lontano passato, forse dovremmo condividerle con loro e semmai riemergere insieme nel presente senza forzature eccessive. Dovremmo ripartire da ciò che rimane intatto dentro di loro, non da ciò che è sciupato o perduto, cioè dal sottolineare un vuoto e una mancanza.




Mi fa male l'idea che i pazienti che soffrono di questa patologia vengano stimolati con pressanti richieste di ritornare al qui e ora che li spaventano e li fanno sentire continuamente sotto esame. Forse bisognerebbe ripartire dalla memoria che conservano, da quel lontano passato di cui custodiscono a volte il ricordo fino a credere che sia il presente, invece di invitarli a lasciarlo riposto nella distanza storica.


Magari succede che il passato lontano sia più vivido di quello recente proprio perché in quel tempo c'era ancora una loro progettualità, c'era un futuro e quindi c'erano dei desideri. E' difficile accettare che la nostra serenità ci detti comportamenti che vanno a discapito di quella di chi è malato, eppure capita.


E' difficile accettare che anche nel soffrire per un altro e nel cercare di assisterlo si è spesso inconsapevolmente egoisti, si ragiona in base ai nostri non richiesti sensi di colpa e non in relazione ai bisogni più profondi dell'altro. Ancora più difficile è capire che la comunicazione affettiva non è mediata sempre solo e necessariamente dalle parole, dalla razionalità. Con i bambini molto piccoli, per esempio, la comunicazione passa attraverso canali non verbali, dal dialogo tonico alla postura, alla mimica e, infine, alla prosodia. Dovremmo imparare a ripartire da qui, forse.

4 commenti:

  1. Molti di quelli che su facebook hanno commentato o messo il like a questo post vivono una situazione così, ma solo con alcuni mi è capitato di parlarne direttamente. Altri possono avermi fraintesa; è la conseguenza della necessità di essere sintetici in questo tipo di canali comunicativi. Le mie parole non volevano affatto essere un atto di accusa nei confronti di chi si trova a vivere un'esperienza così, al contrario. Io stessa, del resto, ho attraversato una situazione dolorosa e simile, anche se non si trattava proprio di Alzheimer. Il riferimento all'egoismo era soprattutto all’idea, che ha origine nel modo sociale di gestire tale patologia e altre simili, del dover insistere su ciò che non c’è più nell’illusione di recuperarlo, perdendo occasioni di contatto e vicinanza diverse e mettendo involontariamente in una situazione di esame costante chi è malato. Le carezze e gli sguardi possono comunicare molto più delle parole tese a ricondurre alla realtà del calendario (Che anno è? Che mese è? Quanti anni hai? Chi è quello? Chi è quella? Chi sono io?) e possono farci sentire meno abbandonati da chi è malato di questa perdita progressiva del Sé cognitivo. Perché non ripartire dal passato, da ciò che conservano meglio, e non da ciò che hanno perduto e non sanno? Perché non valorizzare di più il semplice gesto di tenersi la mano rispetto alla possibilità di scambiare parole che dimostrino il possesso della comprensione razionale del qui e ora? Ascoltare insieme vecchie canzoni amate, guardare foto, ricordare momenti anche molto lontani del passato condiviso fanno sentire ancora vitale l’altro e la relazione che si ha con lui. Sono convinta che in attesa dei progressi della medicina (e qui si aprirebbe un lungo capitolo…) sia meglio ripartire da qui, dall’emotività e dall’affetto e non dalla dimensione razionale. So, naturalmente, che non è affatto facile.
    Una persona, in privato, mi ha scritto che ci vorrebbero i gruppi di auto-aiuto, in questo caso dei familiari, e io sono d’accordo da sempre.

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  2. Andrea Cascioli05 ottobre, 2016

    "Perché non ripartire dal passato, da ciò che conservano meglio, e non da ciò che hanno perduto e non sanno?"
    Perché siamo bisognosi di certificazioni. Circa il fatto che siamo utili, o che loro possano anche un minimo tornare a posto, che sia un processo reversibile, che tutto sommato a noi non accadrà.
    Sono varie le certificazioni di cui abbiamo bisogno.
    I bisognosi siamo noi.

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    1. Hai ragione. Abbiamo paura: della fragilità, della nostra stessa commozione, delle ombre, di tutto ciò che non è perfetto. La paura è il più grande ostacolo frapposto tra noi stessi e la possibilità di essere più felici.

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  3. Ho vissuto esperienze molto simili gestite in modi differenti. E' molto importante e sentito l'argomento, talmente toccante che ,quando la vita scorre lineare nella sua sequenza abitudinaria, si finge quasi di non accorgersene. Ad una zia piaceva ascoltarmi mentre le raccontavo le mie storie del presente, entravo nella casa di riposo tutta allegra e le dicevo le novità, sorrideva felice. Uno zio mi parlava del suo passato lontanissimo, gli rispondevo come fosse presente, questo zio si perdeva in un mondo tutto suo dove ad un certo punto non c'ero più, il suo sguardo lontano. Lo ascoltavo in silenzio, mi dava la mano ogni tanto e qualche volta pregavamo assieme. Tante, tante situazioni diverse. Diciamo che ho sempre cercato di non spaventarli, la fragilità di queste persone è immensa. Uno zio, quando piangeva lo portavo in Chiesa dove trovava molto conforto, pregavo con lui e si scivolava in una dimensione dolce. Mia madre anziana per fortuna è più sveglia di me, al punto da farmi dubitare della mia lucidità, di questo ringrazio il cielo

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