venerdì 1 aprile 2016

I figli di Don Abbondio


La macchinazione, il film di David Grieco sulla morte di Pasolini uscito in questi giorni, l’ho visto in una sera in cui cercavo di sopire la tristezza per una notizia dolorosa ricevuta da poche ore. Sono andata in compagnia di due persone che si sono occupate a lungo di questa vicenda e hanno scritto un libro di cui si può sapere tutto qui, sul sito della casa editrice. Una dei due è mia amica da molto tempo e spesso abbiamo parlato di Pasolini. Qui c’è il suo commento sul film. 



E' un film di denuncia, ma sarebbe riduttivo circoscriverlo a questa sola categoria. Molti sostengono che non ci sono prove sufficienti per condividere la versione raccontata nel film, ma io credo che la domanda giusta da porci sia un'altra. Dovremmo chiederci, cioè, non tanto se il film dimostra in maniera esaustiva la veridicità di tale versione, ma se, proponendo una verità plausibile, riesce o meno a infrangere la credula e passiva acriticità con la quale è stata accolta una tesi banale e ancor meno dimostrata come quella del fattaccio di cronaca tra omosessuali.



Il film non è un documentario e la verità che ci propone, al di là di quella sulla morte di Pasolini, è altrettanto inquietante. Riguarda la deriva politica e sociale del nostro paese filtrata attraverso la vicenda di un uomo tanto scomodo quanto consapevole e perciò solo; solo e spaventato di fronte all'abisso del potere occulto e delle sue trame di morte, delle stragi senza colpevoli, delle bombe fasciste sui treni, del cinismo legato al falso mito del progresso. 
Una piccola citazione illuminante, tratta dal film, ne sintetizza efficacemente il senso più profondo: "Noi siamo italiani, siamo tutti figli di Don Abbondio, siamo vigliacchi, anzi, no, peggio, siamo opportunisti...". Come nella drammaturgia tradizionale e antica, infatti, da qualche decennio il segno tragico del percorso italiano sembra affidato, prima ancora e oltre che ai personaggi, al coro. E' il coro degli ignavi, di quelli imbevuti di pregiudizi trasversali alle classi, ai differenti orientamenti sessuali, religiosi e politici.



Un coro di complici che si affianca a quello degli assassini di Pasolini creando un paradossale e caleidoscopico reticolo di malavitosi e ricchi industriali, di politici e di sciupafemmine qualsiasi, di perdigiorno e di pigri giocatori di biliardo nei bar della periferia più degradata. Il film ci racconta passo passo la coralità della colpa: non si è trattato di un singolo assassino, del disgraziato ragazzo di borgata, amante, amico, semi-figlio di Pasolini e chissà se psicologicamente dipendente da lui, che nel film vediamo aggredire gioiosamente piatti di spaghetti e altre prelibatezze della cucina popolare.



Li vediamo più di una volta seduti di fronte e mentre Pasolini  spesso non mangia, ma osserva compiaciuto la gioia semplice dell’appetito dell'altro, Pino arrotola gli spaghetti alla sua forchetta ben piantata perpendicolare al piatto, appoggiando i gomiti su tovaglie a quadri o sul legno di nudi tavoli da osteria e alzando gli occhi compiaciuto su quel signore dal volto segnato; su quel regista famoso che paga le sue piccole soddisfazioni di ragazzo senza mezzi e senza istruzione e che potrebbe anche farlo recitare in un suo film rendendo ricco e famoso anche lui.



Siamo nell’estate che per Pasolini sarebbe stata l’ultima, quella del 1975, mentre sta montando "Salò o le 120 giornate di Sodoma". E' un film che non sono riuscita a guardare, perché pur avendo provato e riprovato ogni volta non ho potuto fare a meno di abbassare gli occhi e la prima mi sono persino dovuta tappare le orecchie. In questo stesso periodo Pasolini sta anche lavorando a Petrolio, un romanzo scritto in uno stile vicino a quello di un saggio; più di 500 pagine di appunti per un'opera di denuncia incompiuta e pubblicata solo molti anni dopo.
Petrolio è un “J’accuse” rivolto al potere politico nel suo intreccio mefitico con quello economico e malavitoso, nell'epoca in cui ha inizio il lento declino etico di questo nostro paese e nell’intreccio della corruzione pubblica con quella della vita privata.



La morte di Pasolini viene subito trattata come una specie di esito necessario della sua scelta di vita legata a un’omosessualità non censurata, ma esplicita; come un "se l’è cercata e non poteva finire che così”. Nessuno, all'epoca, si interroga sulla stranezza e sulle incongruenze del finale terribile di un film in cui quell'uomo è coinvolto, ma non come regista, quanto piuttosto come la marionetta mossa da fili invisibili insieme all’altra, a quella del colpevole costruito a tavolino e secondo un ben preciso e articolato copione.



Pasolini deve morire da "frocio" perché si possa dire che in fondo – ed è un’altra citazione tratta dal film – non era altro che quello. Nessuno, subito dopo, trova strano che si sia recato in quel posto isolato e assurdo, di notte, quando non avrebbe avuto alcun bisogno di nascondere una relazione simile a tante sue altre, in passato, e vissuta da mesi apertamente.
No, il film non è un documentario, anche se contiene la denuncia che di solito si affida a quel genere. Non mostra la circostanziata sequenza degli eventi, la concatenazione di indizi, le prove provate. Preferisce suggerire sottovoce, piuttosto che urlare.



Rovescia l’interpretazione di quella morte feroce a cui ci eravamo subito adattati e non lo fa tenendoci per mano attraverso i vari passaggi, di stanza in stanza o di corridoio in corridoio, ma avvolgendoci quasi in un’atmosfera onirica, fatta di piani temporali diversi e di continui slittamenti tra l’uno e l’altro. E' un po’ come avviene nelle giustapposizioni della rêverie aurorale, quando ancora non riusciamo ad aprire gli occhi e a tirarci su dal letto, ma ci raggiungono come da una lontananza infinita i rumori del giorno che avanza.



I continui cambi di scena e di dimensione temporale che caratterizzano il film sono efficaci proprio per mettere in evidenza come la verità abbia molti volti e nella morte atroce di quest'uomo scomodo, di verità ce ne siano almeno tre: quella del potere, cioè dei mandanti del suo assassinio e dei disgraziati autori materiali; quella dell’immaginario collettivo disponibile a omologare la sua morte in maniera acritica come necessaria conseguenza della sua vita; e infine la sua, quella della vittima consapevole di ciò che potrebbe accadere e che non vi si sottrae, pur avendo paura.




La paura di Pasolini si respira scena dopo scena. E’ la paura del predestinato. Si respira quando nel silenzio dei libri familiari scrive gli appunti di Petrolio. E si respira ancora più intensamente quando la madre gli ricorda quel suo fratello il cui fantasma, come sempre accade in questi casi, reclama giustizia per la propria morte giovane e innocente.



Lei si rannicchia accanto a lui, nel letto, e gli racconta che è venuto a trovarla in sogno Guido, quel figlio perduto come l’altro – Gesù – che era stata chiamata  a piangere ne “Il Vangelo secondo Matteo” intrecciando il piano della realtà e quello dell’altrettanto reale illusione del cinema.





E’ una paura paradossale la sua, che si coniuga con la negazione del pericolo, cioè dell’idea che una persona ormai famosa come lui possa essere così sola da morire intrappolata nella rete invisibile di pregiudizio e di disprezzo che l'avvolge come un sudario; mentre il petto si solleva ancora, ma piano, nel rantolo lento dell’agonia, quando il volto è ormai ridotto a una maschera di sangue e le palpebre tremano e vorrebbero schiudersi per una nuova alba, come si trattasse solo di una caduta, in uno di quei campi di calcio di periferia che aveva tanto amato.


1 commento:


  1. Vengo da te e torno a te,
    sentimento nato con la luce, col caldo,
    battezzato quando il vagito era gioia,
    riconosciuto in Pier Paolo
    all’origine di una smaniosa epopea:
    ho camminato alla luce della storia,
    ma, sempre, il mio essere fu eroico,
    sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
    Si coagulava nella tua scia di luce
    nelle atroci sfiducie
    della tua fiamma, ogni atto vero
    del mondo, di quella
    storia: e in essa si verificava intero,
    vi perdeva la vita per riaverla:
    e la vita era reale solo se bella…

    penso alle poesie di Pasolini che amo tanto, ai suoi film che non sempre sono riuscita a vedere, quello da te citato mi ha traumatizzato:Salò o le 120 giornate di sodoma" sono trascorsi trent'anni e le scene mi compaiono ancora nella mente , quasi a ricordarmi la crudeltà possibile nell'essere umano e spiegata in un modo così crudo, freddo, determinato, per renderne più efficace la denuncia. Ho fatto sempre fatica a seguire Pier Paolo Pasolini, troppo grande la sua verità, sensibilità, genialità. Un gigante della letteratura e del cinema, non accessibile ai molti, ma ai coraggiosi capaci di guardare nel volto e negli occhi il dolore che solo la verità spesso sa nascondere.

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