domenica 13 marzo 2016

Quella nostra paura della libertà

In questa scena del film la donna intreccia collane di gusci d'uovo rotti e disegnati. Il guscio, la stanza, la prigione.

Ieri sera ho visto Room e mi sono coinvolta molto. Il film racconta una storia terribile, passando attraverso la trasfigurazione di un romanzo che non ho letto, relativa a una vicenda di cronaca nota anche se un po' diversa (il caso Fritzl del 2008).


Il film è coraggioso, forse perché assume come punto di vista quello del piccolo protagonista. Ha  solo cinque anni quel bambino; e pensa, come Sansone, che la propria forza sia racchiusa nei lunghi capelli che a un certo punto sacrifica anche lui per amore di una donna: non Dalila, ma più banalmente sua madre e non per un amore ingannevole, ma per uno profondo e autentico.


Il "Sansone prigioniero" di Annibale Carracci

Come tutti i bambini il piccolo Jack-Sansone desidera e  sogna un cucciolo di cui prendersi cura: per essere insieme oggetto e soggetto della propria capacità di volere bene identificandosi con quel cucciolo stesso, ma anche per sentire che il prendersi cura di qualcuno è una certezza relazionale condivisa e che gli abbandoni sono solo paure rappresentate nelle fiabe. La scena in cui Jack finalmente carezza un cane vero e poi lo fa correre ed è libero insieme a lui, all’aperto, tra gli odori multipli e strani della strada e del prato, mi ha fatto piangere; ma non ne farò il fulcro di queste parole di ripensamento, perché ormai l’ho promesso, scherzandoci un po’ su, a chi ha condiviso con me la visione del film. 





A fare corona attorno al bambino c’è la fragilità di tutti gli altri, degli adulti: la nonna, che deve giustificare il proprio diritto alla realizzazione sentimentale di sé, acquisita nonostante il dolore legato alla scomparsa misteriosa della figlia; il nonno, che non può guardare il faccia il bambino nato dalla violenza subita dalla figlia e non sa riconoscerlo indipendentemente da quell’origine da cui si sente offeso come padre; la madre stessa, la co-protagonista, attanagliata dal rimpianto degli anni che non recupererà più e dal ricordo di quel legame appiccicoso con il proprio carnefice e aguzzino. Un legame accettato, in parte – “Vieni  a letto, ti prego” – per proteggere il figlio dirottando su di sé tutta la smania di possesso di lui. E lui, l'orco cattivo, indistinto e stolido, non so come mi faceva una specie di pena nauseante nel mentre mi generava rabbia; analogamente a quanto mi capita pensando a tutti quelli che hanno bisogno di controllare, di imprigionare, di possedere in vari modi qualcuno per avere rapporti sessuali con lui.


Per possedere un'altra persona, inutile ricordarlo, si possono usare modi letterali, come nella vicenda raccontata dal film oppure come nel mercimonio della prostituzione, o altri subdoli e più raffinati, legati alla definizione dell’altro e della sua identità, che si spingono fino al cercare di plagiarne i sentimenti, i punti di vista e persino i gusti.



Jack-Sansone conosce solo il cielo visto dal lucernario della sua stanza, chiusa come una cassaforte; e il mondo si limita ai poveri oggetti che l’arredano e al guscio caldo dell’abbraccio materno. Quando è fuori si chiede, Jack, se è stato catapultato insieme alla madre in un altro pianeta. 


Per Jack-Sansone il mondo è la sua stanza-cella simbiotica e condivisa in due. Un utero gigante e cattivo-buono che come tutte le situazioni di prigionia genera una sorta di mefitica e distorta sensazione di sicurezza, che crea a sua volta una dipendenza malsana e persino è capace di far sorgere rimpianti una volta che si è esposti all’ebbrezza della libertà.

Soren Kierkegaard
Il filosofo dell’angoscia per eccellenza, Kierkegaard, questo, molto in soldoni, ci diceva: che l’angoscia nasce dalla vertigine della libertà, dalle ali che ci permettono di volare e di scegliere la rotta del nostro volo obbligandoci a vagliare possibilità diverse e a rischiare di sbagliare e di procurarci noi stessi dolore. I prigionieri della caverna di Platone, del resto, incatenati fin da molto piccoli nel loro antro che credevano il mondo, con anche la testa e il collo bloccati in modo che potessero vedere solo il muro che avevano di fronte, erano convinti allo stesso modo di Jack che la realtà fosse quella delle ombre proiettate su quel muro stesso. 

Il Platone di Raffaello
Il prigioniero liberato, uscendo ed esponendosi alla luce del sole, avrebbe provato - ci dice Platone - un intenso dolore; sarebbe stato ferito agli occhi da quella luce abbagliante. Si sarebbe abituato piano piano, però, e allora, provando pietà per i compagni ancora prigionieri, avrebbe voluto tornare nella caverna a cercare di liberarli, ma non sarebbe stato creduto a avrebbe fallito.


Allo stesso modo un feto protetto nel suo utero acquatico non sa niente del mondo fuori, neanche del respiro, di quel riempirsi e svuotarsi d’aria che scandisce l’essere vivi. Né degli odori, né delle luci, dei colori, dei gusti dei cibi e di quelli dei baci e delle carezze. Vuole nascere, a un certo punto, si è fatto ingombrante per quel guscio e non si può più muovere.






E finalmente viene al mondo, alla libertà di percepire, di carezzare ed essere carezzato, di abbracciare e di distaccarsi con quello stesso ritmo che è proprio del respiro, appunto, e che genera una dialettica incessante tra pieno e vuoto. Nasce alla libertà, ma manterrà sempre sopito in qualche parte di sé quel rimpianto, che è una tentazione costante, legato alla ricerca di sicurezza-prigionia.




Hegel


Viene in mente un altro filosofo - e mi scuso se in questo post ce ne sono troppi e se il loro pensiero può apparire semplificato - ed è Hegel, che in un frammento giovanile, "Libertà e destino" (ma il titolo, che a me piace, non è suo, e spesso il testo è citato comunemente con l'incipit: "La contraddizione sempre crescente..."), ci ricorda come queste due opposte condizioni non possano che intrecciarsi tra loro e l'una non possa esistere senza l'altra.


Hegel (da giovane)
Trovare un equilibrio mobile - l'ossimoro è voluto - tra desiderio di libertà e trasformazione da una parte e bisogno di sicurezza e ripetizione abitudinaria dall'altra è, forse, il segreto dell'unica felicità possibile.




Il film è bello perché non allude solo a una vicenda di cronaca eccezionale e terribile, ma riesce a farne una narrazione che ci coinvolge nel profondo e parla di noi tutti, venuti al mondo e alla libertà, ma pronti a essere preda delle più svariate paure quando si tratta di scegliere, di rischiare l’errore o il dolore, di rompere abitudini che portano con sé la sicurezza del controllo. Vittima e carnefice, in fondo, sono avvinti nello stesso nodo che è quello del rapporto tra prigionia e libertà, tra sicurezza e rischio di volare senza protezione alcuna nel mondo.



3 commenti:

  1. Senza nulla togliere alla tua bellissima recensione, il film mi è piaciuto anche per altri motivi. Ad esempio ho apprezzato (e mi hanno dato da pensare) certe definizioni del nostro attuale mondo: il non aver mai sufficiente tempo per noi stessi (il bambino Jack e anche la sua madre ne avevano moltissimo nel loro universo-stanza), il fuori e il dentro (Jack non concepiva il fuori non avendolo mai vissuto, noi non riusciamo a concepire l'andare indietro nel tempo non avendolo mai sperimentato), la realtà e la fantasia (la televisione se prima era una lente/specchio verso il mondo della fantasia poi diventa un modo per insegnare la realtà).

    Ma ciò che più mi ha positivamente sorpreso è che sono andato a vedere il film con la falsa presunzione di studiare/ragionare/leggere/interpretare le reazioni di un adulto costretto ad una reclusione totale per 8 anni e invece ho scoperto che il protagonista non è la donna violentata bensì il bimbo che cresce. È il bambino il protagonista del film. Come ho già detto ieri sera, quasi per scherzo, alla persona che mi accompagnava: è un film sulla pedagogia, è un film pedagogico.

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    1. Vero.Infatti, su facebbok, l'ho raccomandato ai miei studenti. :-)

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  2. Sono andata ieri pomeriggio a vederlo dopo aver letto il tuo post e lo scambio di commenti avvenuto in facebook. Ho fatto leggere il post a mia figlia e alle sue amiche e ieri sera ne ho parlato molto a cena.
    Hai ragione, è un film importante, assolutamente da vedere, commovente. Grazie Antonella, se ascoltavo le ragazze mi sarei fermata ad un'idea di una stanza chiusa, mentre nel film c'era l'intero pianeta metà verde e metà blu, come osserva il bimbo mentre si chiede come fa a non cadere, dal mondo.

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