Yasujirō Ozu |
Avevo
provato, senza riuscirvi, a guardarlo in streaming. Poi è stato proiettato nel
cinema in cui sono praticamente di casa, ma ero fuori Pisa. Mi ero rassegnata a non vederlo. Parlo di “Viaggio a
Tokio”, di Yasujirō Ozu. Ora, però, ho
avuto in dono i suoi film restaurati e ieri sera, sdraiata sul
divano insieme alla gatta Blu, ci sono riuscita.
Tipico stretching della gatta Blu prima di accoccolarsi su di me per guardare i film al computer. Il gatto Ulisse, invece, non ama i film. |
Mi sono emozionata molto, cioè commossa e
arrabbiata varie volte. Non solo per la storia e perché mi ricordava un po’ uno
dei romanzi dello scrittore che più ho amato, Le Père Goriot di Balzac, ma anche per la potenza delle immagini.
Le luci e l'ombra sono esaltate, non so in virtù di quale magia
tecnica, e ci si sente come ipnotizzati, soprattutto per certi controluce con
le persone riprese di spalle.
Perché è così, attraverso la postura, il corpo,
il lento posarsi degli occhi e la danza delle mani, che capisci che nessuno può
aiutarle, quelle persone di spalle - e nemmeno tu - a sopportare la delusione
dolorosa di un viaggio a lungo sognato, nel quale la meta finisce per essere il
disincanto.
Battelli che scivolano sul fiume, treni che passano lenti con il
loro carico e tra una scena e l’altra l’intercalare di panni stesi al sole.
Bianchi, seriali, sono come un sipario che genera l’articolazione del film
nelle sue varie cornici di esistenza e di non comunicazione scandendo la distanza tra la rumorosa, troppo vasta metropoli e il piccolo paese dai
tetti in discesa.
A un certo punto ho alzato il volume. Chissà poi perché, dato
che il film è in giapponese e si segue attraverso le didascalie. Eppure mi è
sembrato naturale. Ero colpita dalla prosodia senza capire bene il motivo.
Tutto quell’alzarsi e abbassarsi del
tono e quell’allungarsi o abbreviarsi dell’accentazione sembrano andare di pari
passo con il contrasto chiaro/scuro così accentuato che caratterizza le
immagini e con il continuo contrappunto tra la quiete della stasi e il movimento, lo scorrere quasi meccanico che vi si oppone.
Il movimento è affidato alle barche che scivolano controcorrente sul fiume e al treno che fende gli alberi, all'inizio e al termine del film. Il movimento è anche quello rapido e nervoso dei ventagli, perpetuamente agitati davanti al proprio corpo immobile come si deve, ripiegato - seduto - sui propri stessi piedi quasi a bloccarne il movimento.
Le sfumature non sono nei gesti, in quell’inchinarsi
anche quando si nutrono sentimenti spiacevoli, nel sorriso che accompagna
qualsiasi tipo di messaggio verbale; ma nella musicalità del parlare e nelle immagini contrastive e quasi violente; che accecano allo stesso modo per il troppo bagliore come
per lo scuro.
Amare senza pretendere la ricevuta, senza garanzia. Amare cercando di capire anche la fragilità dell'altro, i suoi difetti, le sue ombre. Bisogna essere molto forti, per riuscirci. Amare, però, chi ci sa ricambiare e dunque non per obbligo, non perché ci è imposto dalla consuetudine o da un legame di sangue, ma per scelta.
Amare chi ci ama. Imparare a fermarsi, a sostare, di tanto in tanto, per poterlo fare, cioè per ri-amare.
La quiete permette di sognare se stessi e gli altri; il movimento, invece, l'affaccendarsi zelante, a volte ce lo rende impossibile.
La rappresentazione del movimento, nel film, è affidata alle barche o al treno e lo ridico perché è un aspetto che si imprime nella mente, che colpisce molto. In entrambi i casi si tratta di strade prefissate rigidamente: la barca non può che viaggiare lungo la linea del fiume, il treno è prigioniero dei binari.
L'orologio fuori moda che nella scena finale del film Noriko stringe tra le mani mentre è seduta, da sola, sul treno che la riporterà alla sua piccola casa vuota, è il dono più prezioso che si possa ricevere: il tempo e la sua infinita tessitura degli affetti.
Nel nostro vagabondare, a volte ripercorrendo gli stessi passi, non ci accorgiamo che spesso stiamo solo tracciando le spirali di errori passati, come fossimo prigionieri di un copione invisibile.
I due protagonisti principali non passeggiano davvero; e nemmeno viaggiano davvero; non partono da nessuna casa familiare e non arrivano in nessun luogo caldo di affetti. Loro vagabondano, come a volte capita a chiunque, sognando la porta che si apre, il tepore del sakè condiviso e non più l'inchino formale, l'abitudine millenaria del reprimere l'espressione drammatica dei sentimenti, del non mostrare le emozioni, soprattutto quelle negative.
La scena più tenera del film è quella in cui le mani di Noriko si fanno di carne e lei massaggia dolcemente la schiena della suocera.
E' in questa parte del corpo, vulnerabile, non soggetta al controllo della nostra vista, che sentiamo il bisogno di essere protetti e per questo desideriamo, in tutte le età della nostra vita, che qualcuno ci avvolga tra le sue braccia.
Forse sarà di un qualche aiuto per qualcuno sapere che questo come altri mirabili film di Ozu sono visibili con modesta cifra di abbonamento su Mymovies Live (http://www.mymovies.it/live/film/)
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