I visitatori
comuni come me, che non pretendono di fare i critici d'arte, vivono le mostre non considerando solo la riuscita o meno del progetto espositivo e la ricchezza del materiale proposto,
ma avvalendosi di un ulteriore aspetto: usandole, cioè, quasi come schermi per
proiettare i pensieri e le coloriture emotive centrali in quel dato loro momento di vita.
Così ho fatto oggi. Tamara de
Lempicka, pur nella consapevolezza della grande distanza che mi separa da lei
per sensibilità (perché, per esempio, era modaiola e mondana, nel senso più superficiale del termine) mi è sempre piaciuta, anche in quelli che potrebbero
apparire come suoi difetti espressivi.
Mi piace, per esempio, quella ridondanza
dipinta di carni sode e rotonde, così a contrasto con gli spigoli aguzzi e le
geometrie severe del mondo che fanno da sfondo alle sue figure; spesso
controbilanciando con il rosso fiammante di un maglione, di un fiore, delle
labbra inrossettate o con il blu di una sciarpa o ancora con il verde forte di un abito le
scalature di grigio che definiscono gli oggetti materiali e le strutture architettoniche.
Tamara
è due donne in una che mal si conciliano. O, meglio, non si conciliano nell'incontro con l'altro, ma trovano
un dialogo nella pittura, cioè nel mondo interno di lei, anche se non
nelle contorte, contrastate relazioni amorose e sessuali che intrattiene.
Le
sue due identità si alternano in tutto quell'essere tradita o tradire, corteggiata,
desiderata, rincorsa e tuttavia, alla fine dei conti, disamata. Tamara è due
donne in una che si fronteggiano e alternano sulla scena assumendo il volto femminile
tradizionale e quello di un’emancipazione che la porta a competere con gli
stessi maschi, a vestirsi dei loro abiti e ad assoggettare i capelli e la loro
vaporosità lisciandoli come loro.
Tamara ama le seta che avvolge fianchi rotondi e seni
puntuti, i capelli resi artificiosi dai boccoli, i vestiti tagliati a sguincio
e drappeggiati di pieghe, nastri e svolazzi, i lunghi guanti, le sottovesti
maliziose, la posa allusiva delle mani a riposo che promettono carezze proibite.
Tamara
è bisessuale e pratica la propria duplice tensione del desiderio erotico mentre
io (stavo per scrivere, non so perché, “purtroppo”) io, dicevo, non
lo sono. Lei traduce anche in questo modo la fatica di incarnare due donne in una; fatica che è il destino di molte
artiste, letterate o intellettuali sue
coeve o, comunque, di generazioni
successive alla sua, ma precedenti rispetto alla mia; penso, per fare solo un
esempio, a Virginia Woolf, ma anche a molte altre figure di donne solitarie di
questa sua stessa solitudine speciale.
Da questo tipo di donne del passato sono affascinata,
attratta; forse perché sento di avere in comune con tutte loro, e quindi anche
con Tamara, la contraddizione di voler essere forte e fragile insieme,
prorompente e schiva, audace e coraggiosa, anche fino alla provocazione, ma
nello stesso tempo timida e riservata. Guardando i suoi quadri e le
foto che la ritraggono, penso che non deve essere stato facile per i suoi due
mariti e gli altri suoi uomini amare una tipa così, che ti illudi di conoscere e non è mai del tutto vero.
Ecco, infatti, che il suo volto meno
sfacciato appare all’improvviso in tutta la tristezza di quei suoi noti periodi
di depressione, attraverso la madre superiora con la testa inclinata su
una spalla, con un ciuffo sottile e grigio di capelli, quasi invisibile, che le
spunta da sotto la fascia bianca su cui è appoggiato il velo tetro e che forse
è invece una piccola vena azzurrina in trasparenza da sotto la pelle diafana
della fronte. La suora ha lo sguardo velato e le lacrime sembrano di cera che si scioglie come nelle candele accese nelle chiese da mani tremanti
di attese e desideri.
È una bella idea di chi ha progettato la mostra quella di
abbinare alcune delle musiche più amate dalla protagonista alle differenti aree
tematiche delle sale. Più o meno all’inizio siamo avvolti dalla voce della piccola Butterfly che canta il suo sogno. Arriverà il giorno bellissimo in cui la nave bianca
attraccherà al porto e lui la chiamerà ancora da lontano, correndo su per la collina,
con i nomi teneri della loro breve stagione felice: dove sei piccina,
mogliettina, olezzo di verbena? Butterfly immagina di non rispondere, di
nascondersi; un po’ per celia – dice – ma soprattutto per non morire di
felicità al primo incontro.
Nella stanza della suora e di altre immagini legate
al sacro, così come in quella attigua, in cui sono proposte le sue
raffigurazioni dell’infanzia e c’è il grande quadro di sua figlia al balcone,
vestita di verde, lo sguardo già dolcemente seduttivo, sul solito sfondo di
grattacieli aguzzi, la musica che ci accompagna è quella di Erik Satie. E' la Gymnopédie
n.1, con le sue catene di note lente e minimali che racchiudono però, ciascuna, i
riverberi di mille altri suoni inespressi e lo sciabordio sommesso di acque quiete
e profonde, di cui non si vede bene il fondo; ma forse, nella mia mente, le
immagini e i suoni si confondono con quelli delle lavandaie viste il giorno
prima in un altro museo, nei dipinti di un pittore che appartiene a una
sensibilità molto diversa da quella di Tamara.
Essere donna in un’unica forma di donna sembra, ancora oggi, un traguardo impossibile.
Mi piace questa mostra,
tutto sommato.
Anche se manca l’abbraccio carnale di “Adamo ed Eva” che avrei
voluto vedere, qui, per consolarmi dell'esistenza certa dell'amore tra due
esseri così diversi come sono un uomo e una donna. Arrivata quasi alla fine,
quando la musica è un languidissimo “Besame mucho”, penso che vorrei rivedere
un po’ tutto dall'inizio, per una specie di riassunto, ma un po’ me ne
vergogno; però, mentre mi volto incerta su cosa fare, mi accorgo che quella
decisione l'ha presa la persona con la quale ho condiviso questa visita e
allora percorro a ritroso la vita dimidiata e teatrale di questa strana donna.
L’ultimo filmato ce
la mostra, falsamente spontanea nei suoi sorrisi, seduta a un tavolino di caffè all'aperto, con la
sua amante di più lunga data e che è anche la più dipinta; sono in compagnia di un
uomo che non ho capito chi fosse, azzimato e con i capelli impomatati. Loro due
donne ridono, complici. Esco subito dopo, con in mano una busta che contiene il
catalogo e il magnete da frigo e nella testa un disordine scoraggiante di
pensieri ed emozioni, parecchio difficili da raccontare. Ci ho provato.
Se hai comperato il catalogo penso che la foto di lei anziana tu la possa ritrovare riprodotta in quel tomo. Tra le tante graphic novel che possiedo ne ho anche una (di Vanna Vinci) uscita nella primavera di quest'anno e dedicata a Tamara. Tra le ultime vignette ho visto questa che penso possa essere l'equivalente della foto che cerchi. Mi ha ricordato la classica iconografia di Alda Merini anziana.
RispondiEliminaL'immagine del fumetto si riferisce alla stessa epoca, ma è frontale, mentre la foto che mi ha provocato un sentimento indefinibile, quasi di pena, ma non esattamente di pena, è lei presa di profilo. Ho scritto il post senza avere aperto il catalogo, cosa che ho fatto stamani. L'anno scorso, nel trasloco, ho perso il cavo dello scanner e nella speranza di ritrovarlo non l'ho ricomprato. Però mi è venuto in mente che posso fotografare la foto del catalogo, cosa che faccio subito prima di uscire, magari anche con altre che non ho trovato in rete.
EliminaEcco fatto. Ho aggiunto anche una di lei che dipinge in abito nero, lungo e trasparente e un disegno a lapis di un bambino dagli occhi puntuti. I bambini ci guardano e valutano e anche il nostro io bambino lo fa con ciascuno di noi
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