Ho fatto bene, domenica, a deviare il mio viaggio di ritorno scendendo a Bologna e prendendo un
treno per Ferrara, attratta dalla prima mostra italiana dedicata a Francisco de Zurbaràn. Un critico o uno storico dell’arte avrebbero il dovere di
analizzarla in modo tecnico e dettagliato, ma io che non sono né l'una né l'altra cosa mi limito a condividere le emozioni di semplice “usufruitrice” o
“goditrice” (a volte un po’ compulsiva) di bellezza.
Il dipinto che mi ha emozionato di più, di grandissimo impatto, lo si
trova proprio all’inizio del percorso e inchioda lì il visitatore quasi abbagliandolo con la luce del saio di quel frate dell’ordine dei
Mercedari. E’ San Serapio.
San Serapio - 1628 |
Ha la testa un po' infossata dentro le spalle e inclinata da un lato, le palpebre socchiuse e le
mani, legate alle corde, quasi raccolte a pugno; ma è un pugno semiaperto, con le dita rilassate quasi come si stesse lasciando andare al sonno anziché a una straziante e lenta agonia. Lui che si dice avesse combattuto alle crociate al fianco di Riccardo Cuor di
Leone. Lui che catturato dai pirati – siamo a cavallo tra il 1100 e
il 1200 – fu legato mani e piedi a due pali e poi sventrato, quindi squartato e
alla fine decapitato. Un supplizio teatrale, come quelli che ci descrive il
filosofo Michel Foucault. C’è quel fondo nero, il buio assoluto, dietro San Serapio, lo stesso che ritroviamo anche
nei diversi Agnus Dei di Zurbaràn.
Agnus Dei - 1634/1640 |
Anche in quello presente alla mostra il fondo è nero e in questo caso circoscritto al
minimo, perché l’animale rappresentato occupa tutto lo spazio del dipinto e sembra
quasi ipnotizzare il visitatore attraverso il biancore luminoso del vello, lo stesso del saio di Serapio. Non posso guardare l’agnellino con le zampe
legate e la testa appoggiata giù, rassegnata e consapevole, senza avvertire come una morsa allo stomaco. Quello che provo è il brivido dell’insensatezza umana
quando una luce crudele e impietosa ne espone in primo piano la testimonianza. E del resto noi siamo Serapio e siamo l’agnello. Lo siamo ogni volta che ci sentiamo
stretti in legami che possono diventare un inferno, una tortura, uno strazio
senza fine all'origine di un destino di infelicità che ci sembra
insormontabile e irreversibile.
Dicono che i dipinti di Zurbaràn siano espressione soprattutto
di misticismo. Certo, se si guarda al soggetto, non si può non pensarlo, anche se bisogna considerare che tutti i pittori suoi coevi rappresentavano temi religiosi. Quello sfondo buio che gli è congeniale, però, non mi fa pensare a niente di mistico, anzi, mi fa muovere qualcosa nella carne,
nel sangue. E’ il buio dell’atemporalità e in quel buio lì, così speciale e profondo, ci sentiamo tutti accomunati, noi
viventi, umani e animali di specie diverse; accomunati nelle nostre sconfitte, nelle
delusioni che feriscono, nel senso di impotenza che a volte ci toglie il respiro e nella fragilità dei nostri desideri e delle nostre paure antiche.
San Francesco - 1635 |
E poi ecco San
Francesco, a generare l’impressione emotiva più intensa, dopo la rappresentazione del dolore non arreso di Serapio. E’ il dipinto più famoso tra quanti sono esposti. Il volto è in ombra, protetto dal cappuccio.
I piedi di San Francesco |
Sono in ombra i pensieri e la ragione tanto quanto sono
illuminati e vividi i piedi e le mani, cioè gli organi dell’agitarsi, del “portarsi verso” o del “fuggire da”.
La mano destra di San Serapio |
Le mani, questo ponte che si ritrae o
si protende verso l’altro, sono sempre bellissime, in tutti i suoi dipinti.
Sant’Orsola - 1634 |
E ci sono le sante vestite da nobildonne, che poi erano in realtà nobildonne nascoste nelle sembianze di sante dato che all'epoca, come si vede in questo libro di W. Somerset Maugham, non si facevano ritrarre facilmente.
Santa Casilda (particolare) - 1638/1642 |
Colpisce anche tutto quel fiorire di
teste di cherubino a disegnare cornici nel cielo, attorno
ai personaggi o sotto i loro piedi.
E soprattutto c’è “Una tazza d’acqua e una rosa su un piatto
d’argento”, bellissima natura morta che così morta forse non è, dato che sembra
quasi che evochi gli assenti, chi ha versato l’acqua e chi ha deposto la rosa
sul piatto. E quel confondersi fusionale dei confini tra oggetti e quel loro
stagliarsi, nello stesso tempo, gli uni rispetto agli altri, non è molto diverso dal nostro umano stringere e allentare legami, avvicinarsi e allontanarsi gli uni rispetto agli altri.
Una tazza d'acqua e una rosa su un piatto d'argento - 1630 |
Le opere degli ultimi anni di Zurbaràn non mi hanno emozionato molto, di per sé. Sono poche, nell'economia della mostra, e tutte realizzate a Madrid dove si era trasferito. Non ci sono più gli sfondi scuri, il buio intrapsichico che rende i suoi soggetti anche potenti metafore della condizione di fragilità umana. Mentre al centro dei dipinti non campeggia più un individuo nella sua solitudine di incomprensione, prigioniero o predestinato che sia. Con la voce della ragione mi dico, dopo averne trovato conferma sul catalogo, che si era trasferito a Madrid perché a Siviglia stavano emergendo altri stili e altri pittori. E continuo considerando che magari si era fatto molto più attento, forse troppo, alle aspettative dei committenti. Le opere dell’ultima sala non sembrano neanche sue…
RispondiEliminaParticolari interessanti.
RispondiEliminaSerena giornata.
E' cominciata maluccio la giornata, ma ora tutto è davvero tornato sereno. Grazie!
Elimina