Si resta scossi, attoniti,
dopo il film; eppure non presenta sorprese, ma solo la messa in scena di ciò
che sappiamo già così bene. E cioè che il mercato ha gli stessi meccanismi
della guerra; che è davvero una guerra. Come fa un soldato a sparare a un altro soldato e
a ucciderlo? Deve scordare che è un uomo, ridurlo ad alterità totale,
disempatizzare con lui.
Così accade nel film che anziché lento, come ho letto in una recensione prima di scegliere di andare a vederlo, prende
il cuore di chi guarda e lo tiene sospeso, lo strapazza, lo calpesta, lo ferisce. La legge.
L’oggettività delle regole. La giustizia. Nella mia mente risuonano, invece, le parole
di Antigone: che cosa terribile quando un giudice equo emette una sentenza
iniqua!
Esiste una giustizia ingiusta ed è quella che non tiene conto della
cornice, del contesto, della storia di chi è protagonista di un’esperienza perseguibile per legge. Esiste
una giustizia ingiusta perché non siamo tutti uguali e la disuguaglianza rende
impossibile la libertà, e a volte anche quella di essere rispettosi delle leggi e delle regole condivise.
E’ ciò che leggiamo negli occhi dell’anziano sorpreso a rubare del
cibo e in quelli di tutti gli altri personaggi che nell’ufficio deputato all’umiliare
vengono costretti a un percorso all’indietro, al sentirsi precipitare improvvisamente nel passato di bambini in attesa paurosa della punizione dei genitori. La disempatia significa che nell’altro non riusciamo più a vedere un volto e una storia e nel film riguarda
il mondo del lavoro. Lo
stesso meccanismo, però, si può impadronire di noi ogni volta che ci tocca
in sorte giudicare un altro essere umano; sia pure, come capita a me, per
decidere il banale e insignificante voto di un esame.
Ieri sera sono andata al cinema nell’ora in
cui di solito si cena e con ancora negli occhi
la malinconia delle visite rituali di inizio novembre. Per questo, forse, nel buio della
sala pensavo che chi vive un dolore grande o l’ha attraversato non può
riuscire ad adattarsi alla legge del mercato.
Anche il
mio cuore batte forte come quello del protagonista quando, verso la fine, si sfila
lentamente la cravatta e si toglie il completo elegante da lavoro per indossare
un maglione, sbottonarsi il collo della camicia e uscire senza voltarsi indietro respirando l'aria fresca, là fuori. Nella notte tornata silenziosa il passo del rientro è lento, e le mani, in tasca, si stringono quasi a pugno, come di solito mi accade quando un film mi coinvolge molto.
Oltre alla giustizia un altro tema toccato è il rapporto con i colleghi di lavoro. Per quest'ultimo aspetto il film ricorda molto "Due giorni e una notte" dei fratelli Dardenne che ho visto un anno fa.
RispondiEliminaAnche a me, infatti, è venuto in mente proprio quel film e non solo per i contenuti; anche per quella particolare amarezza che sembra quasi di respirare.
Elimina