|
Questa e le successive sono state scattate presso il Muzeul Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Transilvania |
Le foto sono di ieri
e testimoniano la visita al Muzeul
Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Romania, dove mi
trovo per lavoro. Si tratta di un museo etnografico all'aria aperta, di circa
96 ettari, con camminamenti boschivi o lacustri tra una postazione e l'altra, con
animali e piante, con un ristorante e qualche bar mimetizzati nella natura.
Come
tutti i musei prevede un’interruzione della vita normale, ma nello stesso tempo, in questo caso, senza davvero interromperla.
Ci racconta il mondo rurale romeno attraverso i
secoli e la grande inventiva nella lavorazione del legno, ma anche la trasformazione del modo di
vivere la campagna attraverso una gran quantità di edifici e di macchinari, alcuni dei quali funzionanti.
Ci sono poche
didascalie di parole, e a volte se ne sente forse la mancanza, ma è tutto affidato
all'immersione psicofisica, e quest'ultimo è un pregio non indifferente.
Giro molto per
musei, da tanti anni, anche perché come pedagogista mi interessa l’aspetto
divulgativo e didattico e vi sono alcune tipologie che frequento di più. Per
esempio, in viaggi turistici, cerco sempre di visitare i musei della storia della
città in cui mi trovo o gli orti botanici.
Per interesse di studio ne frequento
altri, come i musei di storia della medicina o anche quelli antropologici
e in generale quelli che ci parlano di rapporti tra le persone, di
trasformazioni della relazionalità, di modalità espressivo/comunicative diverse
per epoca e cultura.
Ogni volta, però, finisco per inventarmi da sola un discorso narrativo anche interagendo, attraverso il luogo che visito, con i miei ricordi o con i
miei desideri.
Con gli anni questo
modo estremamente soggettivo e critico di frequentare i musei si è accentuato. In genere, per esempio, non mi piace la
cornice, cioè il luogo in cui sono collocati.
Spesso è una sorta di
hangar o di successione di hangar. Si tratta di stanzoni, insomma, lunghi e con
scaffalature ostensive nelle quali sono sistemati gli oggetti di fronte al
visitatore, esposti alla sua vista ma non al resto dei suoi sensi. Le
didascalie sono per lo più pleonastiche, vale a dire inutili, poiché traducono
in parole ciò che la vista acquisisce da sola.
Di solito non c'è un
accompagnamento narrativo nel senso dell'affabulare, ma solo come profferta
erudita di notizie tecniche e di dettagli ossessivi e interessanti, forse, solo
per gli specialisti.
Mancano degli spazi.
Per esempio un luogo che faccia da preludio e che immagino come uno spogliatoio
psichico metaforico, che potrebbe essere nero o blu scuro, con una funzione anche in parte
simile a quella del sipario a teatro: aiutare a uscire da una
dimensione per entrare in un'altra. In questo filtro metaforico, inteso come ponte tra il fuori e il dentro del museo, ci si potrebbe sedere o sdraiare e a luce più che soffusa ascoltare una musica adatta
all'esperienza che stiamo per vivere.
Poi mi pare che manchino
gli spazi di intervallo deputati a interrompere la dimensione hangar per
permettere di visitare il museo in postazioni diverse ma legate, nello
stesso tempo, da un filo narrativo; da storie importanti tramandate di generazione in generazione, come
accadeva in altri tempi nelle veglie serali, al chiaro di luna o rischiarati
dal lume di una candela.
Mi piacerebbe, infine, che ci fossero sentieri in cui si
potesse passeggiare tra un punto di interesse e un altro per lasciare decantare
le suggestioni e gli stimoli ricevuti e aprirsi a quelli successivi senza alcun
effetto di saturazione.
Il museo che sogno
non dovrebbe essere solo il simulacro distante delle cose perdute, dunque
portatore, alla fine, di un significato mortifero, ma piuttosto legarsi al qui
e ora e alla vita.
Dovrebbe ricordare che una catena biopsichica lega tutti i
viventi attraverso i millenni e dona senso al nostro affannarci a inventare
nuove tecniche per fare pace con la natura o con il nostro inquieto mondo
interno. Dovrebbe essere, infine, anche un modo per conoscere meglio noi stessi
attraverso lo sguardo dell'altro.