venerdì 16 agosto 2019

La fiducia e il Pozzo Alfredo

Le foto della vecchia miniera sono di qualche anno fa.
Nel computer che ho con me ho solo queste
A volte, a lezione, parlando di sentimenti e in particolare dell'amore, uso con ironia il desueto "fidanzati". Ormai ha un sapore quasi ridicolo, però il suo significato è bello, fa riferimento all'antico termine "fidanza", derivato a sua volta dal francese "fiance", dunque al successivo e sostitutivo termine "fiducia". La fiducia è il contrario del desiderio di controllo poiché implica la disponibilità di mettersi in gioco correndo anche dei rischi nel lasciarsi andare al proprio desiderio di credere in altre persone o in una in particolare. Avere fiducia significa anche rischiare di sbagliarsi, mettere nel conto una possibile delusione o un dolore. 



Tuttavia non si può vivere una gioia relazionale se non ci si fida, se si chiedono ossessivamente riscontri e, soprattutto, se si mettono in atto azioni di grottesco spionaggio o richiestive di continue prove. Fidarsi, però, non significa non avvertire la propria fragilità o qualche piccolo timore, ma semplicemente accogliere le proprie paure stesse e, se si riesce, comunicarle in maniera leggera e con una qualche ironia proprio a chi ne è coinvolto. Non è facile. Ma abbiamo alternative che non siano auto ed etero-distruttive? Credo di no.



Ogni volta che penso alla fiducia mi viene in mente il Pozzo Alfredo.
Il Pozzo Alfredo è sempre al suo posto, poco fuori dal paese nel quale ho trascorso infanzia e adolescenza. Sarà un chilometro e mezzo di distanza, forse due, dall'abitato, ma non di più. 
Oggi è parte del Museo delle Miniere, ma quando eravamo bambini era solo un pezzo di storia abbandonato ai rovi e alle serpi. Era però affascinante, come tutte le rovine, con le sue grandi ruote dentate arrugginite, le grate e il silenzio innaturale e misterioso che ci sentivamo costretti in qualche strano modo a rispettare. 




Ci era severamente proibito andarci a giocare e il luogo ci veniva presentato come denso di pericoli di ferimento se non di morte. Tutto ciò, naturalmente, era per noi un motivo di più per farlo, scavalcando alla meglio le precarie protezioni. In realtà, però, ho sempre avuto il sospetto che in fondo gli adulti lo sapessero e che quel luogo l'avessero praticato anche loro, da piccoli, uscendone indenni, e per questo coltivassero la saggezza un po' fatalistica del lasciarci liberi.



Devono avere pensato che i bambini hanno tante risorse e quasi sempre se la cavano anche da soli, diventando forti proprio così. Avevano fiducia. Infatti nessuno di noi, né di altre generazioni di bambini prima o dopo di noi, si è mai fatto male al Pozzo Alfredo. Mentre invece è successo altrove e proprio nei luoghi da dove i genitori potevano, volendo, controllarci dalle finestre di casa.

Anche questa è stata scattata lì

lunedì 1 luglio 2019

Musei mortiferi e musei vitali

Questa e le successive sono state scattate presso il Muzeul Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Transilvania

Le foto sono di ieri e testimoniano la visita al Muzeul Civilizatiei Populare Traditionale ASTRA di Sibiu, in Romania, dove mi trovo per lavoro. Si tratta di un museo etnografico all'aria aperta, di circa 96 ettari, con camminamenti boschivi o lacustri tra una postazione e l'altra, con animali e piante, con un ristorante e qualche bar mimetizzati nella natura.


Come tutti i musei prevede un’interruzione della vita normale, ma nello stesso tempo, in questo caso, senza davvero interromperla.





Ci racconta il mondo rurale romeno attraverso i secoli e la grande inventiva nella lavorazione del legno, ma anche la trasformazione del modo di vivere la campagna attraverso una gran quantità di edifici e di macchinari, alcuni dei quali funzionanti.





Ci sono poche didascalie di parole, e a volte se ne sente forse la mancanza, ma è tutto affidato all'immersione psicofisica, e quest'ultimo è un pregio non indifferente.





Giro molto per musei, da tanti anni, anche perché come pedagogista mi interessa l’aspetto divulgativo e didattico e vi sono alcune tipologie che frequento di più. Per esempio, in viaggi turistici, cerco sempre di visitare i musei della storia della città in cui mi trovo o gli orti botanici.


Per interesse di studio ne frequento altri, come i musei di storia della medicina o anche quelli antropologici e in generale quelli che ci parlano di rapporti tra le persone, di trasformazioni della relazionalità, di modalità espressivo/comunicative diverse per epoca e cultura.





Ogni volta, però, finisco per inventarmi da sola un discorso narrativo anche interagendo, attraverso il luogo che visito, con i miei ricordi o con i miei desideri.



Con gli anni questo modo estremamente soggettivo e critico di frequentare i musei si è accentuato. In genere, per esempio, non mi piace la cornice, cioè il luogo in cui sono collocati.


Spesso è una sorta di hangar o di successione di hangar. Si tratta di stanzoni, insomma, lunghi e con scaffalature ostensive nelle quali sono sistemati gli oggetti di fronte al visitatore, esposti alla sua vista ma non al resto dei suoi sensi. Le didascalie sono per lo più pleonastiche, vale a dire inutili, poiché traducono in parole ciò che la vista acquisisce da sola.





Di solito non c'è un accompagnamento narrativo nel senso dell'affabulare, ma solo come profferta erudita di notizie tecniche e di dettagli ossessivi e interessanti, forse, solo per gli specialisti.

Mancano degli spazi. Per esempio un luogo che faccia da preludio e che immagino come uno spogliatoio psichico metaforico, che potrebbe essere nero o blu scuro, con una funzione anche in parte simile a quella del sipario a teatro: aiutare a uscire da una dimensione per entrare in un'altra.  In questo filtro metaforico, inteso come ponte tra il fuori e il dentro del museo, ci si potrebbe sedere o sdraiare e a luce più che soffusa ascoltare una musica adatta all'esperienza che stiamo per vivere.


Poi mi pare che manchino gli spazi di intervallo deputati a interrompere la dimensione hangar per permettere di visitare il museo in postazioni diverse ma legate, nello stesso tempo, da un filo narrativo; da storie importanti tramandate di generazione in generazione, come accadeva in altri tempi nelle veglie serali, al chiaro di luna o rischiarati dal lume di una candela.


Mi piacerebbe, infine, che ci fossero sentieri in cui si potesse passeggiare tra un punto di interesse e un altro per lasciare decantare le suggestioni e gli stimoli ricevuti e aprirsi a quelli successivi senza alcun effetto di saturazione. 





Il museo che sogno non dovrebbe essere solo il simulacro distante delle cose perdute, dunque portatore, alla fine, di un significato mortifero, ma piuttosto legarsi al qui e ora e alla vita.


Dovrebbe ricordare che una catena biopsichica lega tutti i viventi attraverso i millenni e dona senso al nostro affannarci a inventare nuove tecniche per fare pace con la natura o con il nostro inquieto mondo interno. Dovrebbe essere, infine, anche un modo per conoscere meglio noi stessi attraverso lo sguardo dell'altro. 































































































domenica 16 giugno 2019

L'inafferrabile mistero del tempo tra psiche, baci e musica.

Montagna boschiva, anno che non ricordo (questa e le successive).
Tra una cosa e l'altra da fare per dovere, cercando, come di solito, dei diversivi che funzionino da intervallo, ho preso a spostare alcune vecchie foto in una memoria esterna per liberare un po' il mio computer. E così, riguardando in particolare queste che metto a corredo del post, mi sono messa a considerare quanto questa epoca buia ci renda prigionieri di un tempo alienato.



Ci spinge, infatti, a essere poco attenti al presente, che poi è l'unico tempo che possiamo abitare con il corpo oltre che con la mente. Lasciamo spesso, per esempio, che a livello psichico ci domini il futuro e diventiamo ansiosi e infelici a furia di chiederci quali saranno, domani, le conseguenze di ciò che scegliamo oggi.



Oppure siamo prigionieri del passato e non riusciamo a lasciarci disconfermare da ciò che di inaspettato e forse meraviglioso ci accade nel qui e ora. Una porta socchiusa e chissà dall'altra parte cosa si può trovare e se davvero vale la pena di varcarla, come saremmo tentati di fare, o se invece non sia meglio rimanere ancorati al già noto, alle abitudini nostre o a quelle legate al giudizio sociale e lasciare che sia quest'ultimo a decidere al posto nostro.



Bisognerebbe imparare, invece, a non chiederselo e a inventare ogni giorno la vita con lo stesso stupore di quando eravamo bambini e tremavamo di emozione davanti all'abete luccicante d'oro e di magia e a tutti quei doni sparsi ai suoi piedi e ancora da scartare.



Il presente non è il riformulare subito dopo, e magari a parole, ciò che ci accade. Il presente è l'esperienza nel momento in cui la viviamo ed ha a che fare con il concetto di kairos,  cioè del tempo soggettivo secondo la concezione antica.  Il kairos fa riferimento in qualche modo al momento opportuno o, se vogliamo, propizio, che occorre saper cogliere, quindi alle occasioni perdute, ma anche, in positivo, al quando ci accade qualcosa da cui siamo rapiti e mentre ne siamo avvolti non ci interessa il tempo, cronologicamente inteso, che intanto va avanti. 

Particolare da Francesco Salviati, Il tempo opportuno (1543-1545),
Palazzo Vecchio, Firenze, 

Se consideriamo il tempo come cronologia, così come deve accadere, per lo più, nelle scienze esatte, il presente è inafferrabile e talmente veloce che verrebbe da pensare che non esista.  Tuttavia il tempo soggettivo e interiore è un tempo che sa dilatare all'infinito un attimo e che si dispiega lentamente, con calma. É un tempo eterocrono e frammentato, come alcuni studiosi hanno affermato, spiraliforme e capace di ripresentarsi non come ricordo ma come di nuovo attuale, quasi oltrepassando l'esistenza.



É questo tempo il solo tempo in cui possiamo sentirci soggetti attraverso il nostro desiderare. Noi raccontiamo il tempo passato e in questo modo cerchiamo di venire a patti con quello cronologico, ma siano definiti dal tempo anacronistico che abita il dentro di noi, quello stesso che può esprimersi nell'esperienza intensa e infinita di un abbraccio o di un bacio.

Colazione da Tiffany, verso il finale. Tra i baci famosi
è quello che mi emoziona di più
Forse solo il linguaggio della musica, nonostante la sua scrittura sia scandita in base a una frazione temporale messa all'inizio del pentagramma, assomiglia a quest'idea del tempo presente.



Per quanto ci si aggrappi anche alla ripetizione di strutture melodiche o ritmiche all'interno di una composizione o, ancora, per quanto possiamo ascoltare e riascoltare un determinato brano, ogni volta si tratterà di un'esperienza irripetibile e che benché  abbia ovviamente a che fare con essa, non si trova certo nella pagina scritta di una partitura. 

mercoledì 1 maggio 2019

La memoria, la musica e l'immateriale


Salento profondo, settembre 2018
(Questa e le successive sono state scattate a San Cesario, Ortelle, Spongano e Castro)
La ricostruzione razionale può anche uccidere il passato, cristallizzandolo, se non si mette in dialogo con quella emozionale, con la capacità di immaginare, di immedesimarsi, di fare ricorso alla catena biopsichica che legga i vivi a quelli che non ci sono più.



Riappropriarsi di un passato perduto, alla fin fine, è un atto di equilibrio tra vari opposti: ciò che è stato e ciò che sarà, ma anche il volontario e l’involontario o la ricostruzione di immagini e quella più onirica e impalpabile legata agli odori, ai sapori, alle sensazioni date dal toccare e dall’essere toccati.



Di tutto questo abbiamo discusso in una Summer School che si è tenuta nella prima settimana di settembre 2018, cercando di ricostruire una storia frammentata e dimenticata legata all’identità di una comunità salentina.



In uno dei tanti paesi dell’entroterra, San Cesario, tutto, dal 1906 e per quasi due terzi del XX secolo, ruota attorno a un luogo di produzione che rappresenta sicurezza e lavoro per molte famiglie e crea una ricchezza enorme per i suoi proprietari: la distilleria De Giorgi.



Autonoma, moderna, fiorente e prospera, improvvisamente, un giorno, cessa di pulsare di vita. 



Il luogo, una volta chiuso, subisce per molti anni le offese dell’abbandono finché, finalmente, viene trasformato in un museo.



I vecchi macchinari, gli utensili, i cartelli, le etichette, le locandine pubblicitarie e le bottiglie: tutto viene recuperato per essere utilizzato in una lunga processione ostensiva di oggetti e di parole.



Ci sono anche le foto che il primo proprietario stesso aveva voluto affidare al fotografo in voga all'epoca. 



Parlare del passato, della perdita di memoria e identità, non basta per recuperarlo.  Bisogna anche un po' abitarlo, lasciarsene avvolgere, giocare con il tempo, ed è proprio ciò che cerchiamo di fare. 



Per otto interi giorni rendiamo viva la distilleria-museo, vi pranziamo e ceniamo con cibo cucinato alla maniera tradizionale, con vino prodotto in Salento e gustando l’anisetta, schietta o allungata con acqua gelida, ma sempre con dentro al bicchiere,  per aromatizzarla, un piccolo chicco di caffè.



Il liquore principale della distilleria, il più noto, la vera invenzione di Don Nicola, il capostipite o “il principale”, come veniva chiamato dai suoi operai, compare persino in una scena di Casablanca, in bella vista su un tavolo accanto al quale Humphrey Bogart ci guarda con l’espressione di uno che è già prossimo al sacrificio amoroso compiuto in nome di un più alto ideale. 



La distilleria, all'epoca del suo massimo splendore, era un mondo impenetrabile dall’esterno i cui alti cancelli delimitavano la zona cui era impossibile accedere se non vi si svolgeva una qualche mansione.



Era l’anima viva di un intero paese, eppure preclusa, inattingibile se non per gli operai che non dovevano distrarsi mentre alambicco e ingranaggi erano attivi e producevano spirito, liquori, vini, ma soprattutto la materia prima, l’alcool per altri produttori di liquori, e dunque da vendere  persino su, nel nord efficiente, freddo e distante.



Il bellissimo museo di archeologia industriale ubicato nella ex sede della distilleria, pieno di richiami e suggestioni, ha anche qualcosa di inquietante perché entrandoci si ha la sensazione di penetrare in un non tempo; ovvero in un tempo che assomiglia a quello del gioco dei bambini quando mettono in scena le gesta incomprensibili di adulti giganti, di guerrieri che danno o ricevono la morte fisica e spargono sangue.



Il tempo è quello di un attimo infinitamente dilatato, come accade anche nei sogni o nella nostra interiorità, nella quale sono compresenti tutte le età che abbiamo vissuto e quelle che vivremo.



E’ lo stesso presente cristallizzato in cui si articola la temporalità della follia, fatta di ripetizioni, di analogie, di ecolalia, di cerchi concentrici sui quali ricalcare le proprie stesse orme per sempre.



Nei giorni passati a San  Cesario e dintorni raccogliamo notizie, racconti, studi di esperti. Facciamo noi stessi confronti, cerchiamo analogie con le pagine note della storia, con i meccanismi perversi e ricorsivi del potere e del silenzio degli universi perdenti, ma abbiamo consapevolezza, tuttavia, che tutto ciò, pur necessario, non basti per capire.



Nel mondo immobile di quel passato cristallizzato cominciamo allora a muoverci cercando di fare affiorare le sensazioni più infantili, le emozioni più arcaiche, le vibrazioni dei materiali considerati morti e che morti forse ancora non sono: il ferro, il legno, le pietre.



Dobbiamo considerare un altro equilibrio ancora, difficile da realizzare, tra la parte viscerale e quella razionale di noi, tra il desiderio di controllo che ci viene assicurato dalle parole e dalle loro concatenazioni logiche e quello invece della perdita del qui e ora, del viaggio iniziatico che permette di squarciare nebbia e oscurità per essere catapultati nel tempo in cui le macchine pulsavano e c’erano odori, rumori, voci ora sommesse, ora dispiegate, a regolare il lavoro. 



Leggiamo i molti cartelli che cercavano di suggerire a chi faticava in quel luogo identità e comportanti consoni. Ordine, coscienziosità, alacrità, utilità, produttività, controllo.



Buffo trovare continuamente questi inviti scritti, affissi nelle pareti di un luogo atto a produrre l’effimero, l’inutile che però più utile non si può. Ci si ricorda, allora, che Noè, non appena uscito dall’arca e ritrovato il contatto con la terra madre, per prima cosa vi pianta una vite in segno di gratitudine e di buon auspicio. 



Spirito, spiritoso, intelligente, spirituale… Una catena di associazioni analogiche ci ricorda che bellezza e intelligenza devono darsi la mano e avvolgersi di poesia perché le tracce del passato non si perdano nel nulla e trovino un senso.



Proprio per dare significato al nostro breve percorso di riscoperta, al termine  cerchiamo di condividerne i risultati con la comunità in forma di performance, quasi uno spettacolo che spettacolo non vuole essere del tutto, perché nessuno di noi è un attore o un regista di professione.



Però ci sforziamo di mettere in scena le nostre emozioni come se lo fossimo, attori e registi, perché la drammatizzazione è un’arte che in un certo senso tutti sanno esercitare e che si impara quando si è molto piccoli. E ci piace farlo rompendo i ruoli tradizionali, specialmente quelli che definiscono i rapporti accademici e più in generale propri dei luoghi di lavoro.

Così cerchiamo di far battere i nostri cuori all’unisono riproducendo amplificato nel nostro corpo, con le mani, quel primo ritmo binario a cui veniamo esposti quando ancora siamo nel grembo materno e siamo destinati a riproporre per sempre in mille modi diversi e persino con le braccia, cullando i nostri piccoli come noi stessi siamo stati cullati.




Il cuore che batte significa vita e facendo battere rumorosamente i nostri ci pare di mettere in scena il desiderio di animare il cuore grande di una comunità intera, rendendo visibili le catene di sofferenza, di fatica, di paura, di sfruttamento che si accompagnano al pulsare dell’esistenza, al riprodursi dei sentimenti d’amore, di amicizia, di lealtà, di stima, di rispetto o di rabbia.



Con le bottiglie trasformate in maracas diamo vita allo sciabordare antico delle donne chiamate un secolo fa a sciacquare quelle della distilleria e considerate, nel paese, come delle poco di buono in quanto lavoratrici, cioè non solo casalinghe, ma disposte ad accattarsi un guadagno attraverso il lavoro, come gli uomini. 



Le pietre parlano un loro speciale linguaggio. Penso alle mie, mentre sono lì, cioè quelle di Volterra che lassù, in alto, conservano il mistero delle impronte fossili di conchiglie, in una nostalgia acquatica improbabile. 


Guidati da un artista ci cimentiamo con il precario equilibrio di sculture fatte con le pietre, cercando di muovere piano e con maggiore consapevolezza le mani e il corpo e così imparando a nostre spese che nessun equilibrio è fisso, che niente ci è garantito nella durata, che tutto si modifica e che dobbiamo anche noi essere disponibili alla mobilità, dunque all’imperfezione, alla fragilità e all’errore.



Dotare di senso, in fondo, è sempre un’interpretazione e per interpretare bisogna dare ali all’immaginazione e al gioco, osando accostamenti nuovi ed esplicitando, con lealtà, che di niente si può essere del tutto sicuri su ciò che non è più, ma che possiamo costruirne la memoria solo insieme, in rete, in tanti, e serbarla come un tesoro scoperto e condiviso. 



“Un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto”. Ci identifichiamo senza saperlo in quel monito scritto più volte sulle pareti della distilleria, per poi disattenderlo. Abbiamo, infatti, delle postazioni prestabilite di scena. Ognuno deve stare su una certa linea dell’immaginario rettangolo di palcoscenico e ha qualcuno a destra, qualcuno a sinistra e cerchiamo con qualche difficoltà di memorizzare ciascuno il proprio posto per poi scordarcene al momento dello spettacolo.



Qualcuno allora, a turno, si chiede a voce alta chi dovrebbe essere in fila davanti a lui e chi dietro, chi dovrebbe entrare prima e chi dopo, e qualcun altro, sempre a turno, dice che non bisogna preoccuparsene dato che tutto, poi, si aggiusta da solo. Ogni persona al suo posto, un posto per ogni persona.


Siamo convinti di conoscere i luoghi familiari semplicemente perché ci siamo cresciuti e magari abbiamo cominciato a sognare mondi diversi tra quelle certe pietre o quel certo verde o in quella certa terra riarsa dal sole o in quell’altra impervia e disomogenea. Siamo convinti, cioè, di possedere la memoria dei luoghi in cui viviamo. Invece la storia è impietosa e può cancellare del tutto dalla nostra coscienza anche un passato importante e comune, soprattutto quando è legato a qualcosa di traumatico.



Così può accadere, per esempio, per l’esperienza della guerra. Chi si è trovato a dover sopravvivere alle morti giovani dei propri amici, nelle trincee umide o nell’insidia invisibile dei campi minati, non riesce a raccontare e se lo fa ricostruisce in maniera niente affatto fedele, esaltando alcuni aspetti o censurandone altri, mitizzando e idealizzando oppure ovattando tutto in una sorta di nebbia che nasconde l’inspiegabile, l’inquietante, l’insensato.



Le comunità, in fondo, non funzionano diversamente dagli uomini singoli. La loro memoria collettiva subisce le stesse impietose leggi che regolano quella dell’individuo e pretendere di evocare i ricordi e il passato soltanto a furia di documenti e razionalizzazioni non aiuta per niente.



La memoria del passato – lo sosteneva lo stesso Freud – affiora da chissà quali profondità proprio quando meno ce lo aspettiamo, resuscitata da tracce arcaiche legate a recettori di contatto, che poi sono i primi di cui ci serviamo per conoscere il mondo.




Sono i ricordi che ci visitano, sempre secondo Freud, e noi dobbiamo solo riuscire ad accoglierli, ad amplificarli, a lasciarcene stordire, ad abitarne la vertigine, ad arrenderci all’idea che creano squarci nell’inafferrabile eternità e per un attimo ci permettono di tenerla in pugno.
E dobbiamo anche accompagnare le parole e a volte sostituirle con altri alfabeti.


Protagonista del nostro viaggio pedagogico è infatti la musica, in tutti i suoi volti e di tutti i tipi: ritmata, melodica, antica, nuova, inventata, persino. Rappresenta la nostra linea di continuità con il passato, forse la sola dimensione capace di garantire l’equilibrio tra il dentro e il fuori personali e collettivi, tra il giocoso e il serio, tra il materiale e l’inafferrabile.



Quando non si trovano le parole per spiegare, si può sempre cantare, si può sempre suonare, magari con strumenti improvvisati, battendo le mani o i piedi, dimenandoci, sollevandoci e  poi cercando il suolo per trarci di nuovo su, come quando al mattino ci alziamo e precipitiamo dal confuso al distinto acquisendo un confine corporeo e mantenendo una distanza, sia pure variabile, con cose e persone con le quali di notte ci confondiamo anche percettivamente. 



Quando le parole non bastano, si può sempre cantarle e allora diventano ricche e raccontano molto, molto di più, a chi le sa ascoltare e far risuonare dentro e tutto attorno a sé, con gli altri, mano nella mano; perché siamo, prima di ogni altra cosa, umani.