domenica 14 agosto 2016

Nomi e soprannomi

In altri anni e attività
(Che poi, chissà chi siamo davvero...)

Ho il nome doppio e questo mi ha sempre creato un sacco di problemi. Le persone che mi frequentano mi chiamano con il secondo, Antonella, ma le altre tendono a usare il primo, Maria, al quale non sono abituata e non reagisco. Ho avuto anche tanti nomignoli e soprannomi. Provo a elencare quelli usati pubblicamente, tralasciando quelli molto privati e quelli eventualmente usati alle mie spalle. Tralascio anche Nella, Nellina, Anto, Antò, Antonellina, Antonia, Tonia, Tonè, ‘Ntonè, ‘Ntò a volte scelti per pigrizia locutoria, altre, forse, per sottolineare una speciale confidenza.
Tortellina, Tordela, Tortella, Turtelen, Turdelen: in tutte queste varianti mi chiamava il mio nonno paterno, per tenerezza e basta. Non so se in Lunigiana, da cui proveniva, erano nomignoli usati in generale per riferirsi ai bambini. Mia nonna, anche lei delle stesse origini, mi chiamava “La fanta” o “La fanten”, penso come derivato da “enfant”, cioè dalla lingua di uno dei tanti dominatori di quella terra.


Spepa, a volte allungato in Spepola: dato dai miei zii paterni, più giovani di mio padre, in riferimento al pepe, cioè alla vivacità, al fatto che ero sempre in movimento e che ero impertinente con le parole. Me l’aveva affibbiato mio zio Romano, che era un inventore per eccellenza di soprannomi e ce ne aveva per tutti; ma lo usava anche l’altro, Giancarlo, e hanno smesso di chiamarmi così solo quando sono diventata ragazza.

Una pianta del pepe con peperoncini rossi.
(Foto non mia, ma trovata in rete).

Perry Mason: coniato da alcuni compagni delle elementari con cui discutevo spesso a intendere che volevo sempre avere ragione io. 




Nandina, Kennendina: usati in riferimento a me nel paese dove sono cresciuta, Montecatini Val di Cecina. Un po’ alla russa, Nandina derivava da Nando e Kennedina da Kennedy, che erano i due appellativi con cui ci si riferiva ufficialmente a mio padre. Il nomignolo Nandino era un addolcimento del più severo nome "Arnaldo" e il soprannome, Kennedy, dipendeva da una sua vaga somiglianza, pettinatura compresa, a John. Nel paese quasi nessuno veniva chiamato per nome e spesso i soprannomi venivano ereditati, magari con il diminutivo, dai figli, o estesi alla moglie e al marito, cambiando il genere. A me era andata bene perché molti soprannomi di paese erano crudeli, si riferivano a difetti fisici, a malattie, ma anche a qualche motivo di bruttezza nel corpo o nel carattere.





Non di rado i soprannomi con cui i malcapitati venivano chiamati alla luce del sole, anche rivolgendosi direttamente a loro, consistevano nella qualità opposta al difetto che li contrassegnava. Così – sto inventando, per non offendere nessuno – una persona particolarmente grassa poteva avere soprannomi tipo “lo smilzo” o “il sottile” e una acida e scontrosa poteva essere chiamata, che so, “il gioviale” o “il bendisposto”, mentre una bassa poteva diventare “il watusso” e così via.






Li ricordo tutti quei soprannomi e ricordo anche lo stupore degli amici di città, ai quali spesso sembravano cattivi fino al sadismo. In realtà era invece un modo che faceva sentire le persone accettate per quello che erano, cioè umanamente imperfette e magari, chissà, sarà pure servito a qualcuno da stimolo per cambiare un po’.



Occhialuta, Quattr'occhi: usato all'epoca delle elementari nei litigi fra bambini per ferirmi. Ho messo gli occhiali a quattro anni, in quanto ipermetrope, a differenza dei miopi che li mettevano all’età delle medie. Ero praticamente l’unica bambina con gli occhiali. Quei due epiteti mi facevano stare male e a volte mi nascondevo da qualche parte a piangere. Era l’unico modo in cui nei conflitti fra bambini riuscivano a mettermi a tacere. In un paese così piccolo vivevamo molto tempo fuori, in strada e per i campi, liberi. Le auto erano rare e si sentivano arrivare da lontano, tanto era il silenzio generale. Più che altro passavano apini, dunque mezzi che andavano più pianissimo che piano e non c'era pericolo. Gestivamo i conflitti lontano dalle finestre da cui gli adulti avrebbero potuto vederci e a volte ce le davamo di santa ragione, ma più spesso ci offendevamo anche nel modo più atroce. Poi facevamo pace, acquietati.

A volte mi facevo fotografare senza occhiali, per il motivo spiegato qui, con il risultato di avere uno sguardo un po' perso...

E’ stata una buona palestra di vita, per me, che ho imparato a difendermi da sola e a non avere paura a esprimermi e anche a non coltivare il rancore. Credo che ancora oggi quei litigi consumati al riparo di orecchie e occhi adulti mi siano di aiuto nelle difficoltà e mi ritengo fortunata per essere cresciuta così, senza troppa protezione, imparando a rischiare e a gestire anche la condizione di una contro tutti, se capita.

Piccinina: dato dai compagni di prima media. Ero un anno avanti e in più nata a fine luglio, perciò ero più bassa degli altri. Non sono stata mandata un anno avanti per scelta spontanea dei miei, ma semplicemente perché si sono accorti che sapevo già leggere, avendo imparato da sola, e hanno temuto che mi sarei annoiata in prima e avrei creato problemi. Tanto più che sarei dovuta andare in classe con mia madre dato che al mio piccolo paese c’erano solo cinque maestre. Invece, così, andando direttamente in seconda dopo un piccolo esame, ho avuto un’altra maestra e il diritto, come tutti i bambini, a vivere una situazione non direttamente controllata dai genitori.

Jiang Qing o Chang Ching che per chi non lo sapesse era l’ultima moglie di Mao. Il soprannome è stato utilizzato per un certo tempo in ambito politico, quando ero studentessa, in riferimento alla mia abitudine giovanile di dire sempre quello che pensavo, a singoli e a gruppi, anche in situazioni ostili e anche quando non sarebbe stato opportuno.

Eccola in versione occidentalizzata, con la pelle rosa,
come usava nei dipinti allora
C’era anche un doppio significato perché spesso mi muovevo con tre amici fissi e quindi formavamo una specie di “banda dei quattro”, come quella cui apparteneva Jiang Oing (pronunciata, più o meno, Ciang Cing che non so neanche se è corretta). Non è durato tantissimo, anche per la brutta fine del personaggio.

Eccola con Mao

Mafalda: sono stata chiamata così per tutto il tempo dell’università e ancora dopo, per qualche anno. L’origine era il personaggio di Quino, al quale somigliavo molto per  il carattere e il tipo di battute tra l’impertinente  e l’idealista, ma anche per i capelli ribelli che quasi sempre tagliavo da sola combinando dei disastri.



E’ un soprannome che mi è stato caro, usato dagli amici dell’epoca e c’è stato anche chi ha creduto che fosse il mio nome vero! 



I nomi hanno un potere. Gli altri ci chiamano e definiscono e sta a noi decidere se rispondere o no e quali nomi amare tra tutti quanti. Nel mio elenco i più cari sono, in ordine di apparizione, il primo e l’ultimo: Tortellina e Mafalda.